Urologia nel Settecento

Anche nel 1700 l’urologia, per quanto praticata da chirurghi preparati, segnò il passo perché frenata dalle infezioni.

L’operazione più praticata era sempre quella per calcolosi vescicale, che veniva generalmente eseguita col «taglio perineale lateralizzato» ideato da fratello Jacques.
Jean Baseilhac, detto fratello Cosma (1703-1781), perfezionò ulteriormente questo procedimento, introducendo un litotomo a lama nascosta condotto in vescica lungo la scanalatura del catetere uretrale. Anche il «taglio ipogastrieo» venne largamente impiegato da fratello Cosma, che vi apportò dei miglioramenti, e da Francesco Morand.

Gli interventi sulla vescica continuavano, però, ad essere molto pericolosi. In una statistica di Morand, apparsa verso la meta del 1700, sono riportati dei dati impressionanti. Su 812 malati operati per calcolosi vescicale all’Hotel Dieu e alla Charité di Parigi, il 31% non sopravvisse all’operazione. Tra i sopravvissuti molti ebbero fistole urinarie.
Per questo le cure mediche a base di preparati che miravano a far sciogliere i calcoli ebbero un successo notevole, poiché coloro che erano affetti dal «mal della pietra» speravano di poter sfuggire all’operazione, atrocemente dolorosa e spesso mortale.

La mediocrità delle tecniche chirurgiche disponibili per gli interventi sulla vescica non consentirono di intervenire con possibilità di successo neanche nei tumori vescicali, descritti e raffigurati esaurientemente, intorno al 1720 da Federico Ruysch (1638-1731), in una sua pubblicazione sulle malattie dell’apparato urinarie. Le Chat (1700-1768) effettuò la prima estirpazione di un polipo della vescica. Anche la patologia e la chirurgia renale rimasero poco conosciute e gli interventi sul rene erano molto rari. Lafitte nel 1734 effettuò con successo una nefrolitotomia in due tempi. Ma la maggior parte dei chirurghi di quest’epoca, come si può anche rilevare da una pubblicazione di Prudent Hevin (1715-1789), non ammetteva la lombotomia, se non per una raccolta purulenta.

L’avvio dell’urologia nel Rinascimento

Nel Rinascimento in campo urologico i disturbi della minzione, allora denominati “impedimenti urinari” rimasero le malattie più frequenti. Erano in massima parte dovuti restringimenti ureterali causati da “carnosità” prodotte da numerose malattie, soprattutto da quelle veneree, allora molto diffuse nella forma cronica. Leggi tutto “L’avvio dell’urologia nel Rinascimento”

L’Urologia al tempo dei Romani

Nel “De Medicina” Celso dedicò ampio spazio alla patologia dell’apparato urinario, sebbene va sottolineato che accanto a precise nozioni tecniche su alcuni interventi, pose interpretazioni fantasiose sulla sintomatologia di alcune patologie.

La descrizione di Celso del taglio perineale per l’asportazione dei calcoli vescicali è molto precisa, pur limitandone l’indicazione nei ragazzi dai 9 ai 14 anni (età in cui allora la malattia era molto diffusa).
Descrisse in modo corretto il cateterismo uretrale per mezzo di sonde dotate di una curvatura e di fori laterali all’estremità.

Sempre in campo urologico, Areteo di Capodocia (81-138 d.C.) si occupò di delle nefriti, tentandone anche una classificazione. Nel caso di ritenzione urinaria, in cui era impossibile praticare il cateterismo uretrale, consigliava la cistotomia per via perineale.

Un’opera sulle malattie dell’apparato urinario, in cui sono descritte compiutamente ematurie, piurie, ritenzione d’urina, ascessi prostatici e l’operazione della calcolosi vescicale secondo Celso risale al 100 d.C. a cura di Rufo d’Efeso.

Fu invece Eliodoro, intorno al 120-130 d.C. a descrivere per la prima volta i restringimenti dell’uretra, che attribuì a delle “cavernosità” da asportare per via endouretrale.