La scuola medica salernitana

Salerno costituì il vero tramite tra le scuole di medicina orientali e occidentali prima del Rinascimento.

Dopo la caduta dei califfati arabi, gli scienziati della Spagna musulmana, si rifugiarono soprattutto in Francia, a Montpellier, e in Italia a Salerno, dove fiorì la cosiddetta scuola salernitana che fu fondata poco prima del 1000.

Suoi genitori sarebbero stati quattro medici leggendari: un rabbino apolide (Eliseo), un maestro saraceno (Abdullah di Aleppo), un greco bizantino (Pontus) e un maestro indigeno (Salernus). Quest’ultimo sarebbe stato un romano patrizio discendente dei flavii, decaduto dalla nobiltà e costretto a mendicare.

Numerose le caratteristiche che rendevano Salerno una vera e propria hippocratica civitas: la sua posizione geografica, la sua storia, il clima salubre, il retaggio della civiltà bizantina, l’esistenza di un chiostro benedettino con annesso un ospedale, la presenza di una numerosa colonia ebraica.

E le figure leggendarie, rappresentano in qualche modo le tendenze e gli indirizzi culturali della scuola, in un esempio, raro, di tolleranza e arricchimento reciproci.
In questa scuola, infatti, confluirono una marea di manoscritti greci ed arabi; si ebbe perciò un ritorno alla cultura greca e classica e alla medicina ippocratica.

La Salerno scolastica inizia con l’avvento di Alfano (1010-1085), monaco di Montecassino e arcivescono della città fino alla sua morte.
Con lui la tradizione prescolastica viene incanalata nell’alveo della Schola.
I primi medici salernitani entrati nella storia sono Garioponto, Petroncello e appunto, Alfano.
L’opera più nota di Garioponto, il “Passionarius” è una enciclopedia di sette libri tratta dai testi galenici, con una appendice sulle febbri. Qui si trovano le basi del linguaggio medico moderno.
A Petroncello è attribuita la “Pratica”, un testo in cui sono descritte le malattie “dalla testa ai piedi” e dei rimedi per curarle, una sorte di manuale pratico destinato ad avere fortuna.

Da segnalare poi Trotula, una donna medico, attiva e famosa intorno al 1050. Scrisse un libro di ginecologia e ostetricia per le ostetriche intitolato “De mulierum passionibus in ante e post partum” dove si trovano consigli riguardanti il parto e il puerperio.

Si tratta di una figura leggendaria, a metà strada tra la levatrice e la medichessa: come levatrice raccomanda la protezione del perineo durante il travaglio del parto, come medichessa ne raccomanda la sutura in caso di lacerazione.

Indipendentemente dalla sua reale esistenza, va segnalato che a Salerno fu rilevante il contributo dato dalle donne, non solo alla “schola”, ma anche sotto il profilo dell’assistenza.

Nella medicina salernitana era riservato un posto importante all’igiene e alla dieta. L’opera che ha reso maggiormente celebre la scuola Salernitana è il “Regimen Sanitas Salerinatum” – detto anche “Flos medicinae Salerni” – il cui contenuto è prevalentemente a carattere igienico e in massima parte dedicato alla dieta. I principi sono basati sulle norme per conservare la salute, legate a moderazione e temperanza e attenzione a dieta, moto, riposo, alternanza sonno-veglia…insomma, indicazioni piuttosto attuali!

Nella scuola vennero anche curate l’uroscopia, l’oculistica, l’anatomia e la chirurgia.

L’esame delle urine è oggetto di un trattato “Regole urinarium”: il medico osservava attraverso la matula (un vaso di vetro a forma di vescica e a collo largo) le quattro sezioni di urina, corrispondenti alle quattro sezioni del corpo umano. Una sorta di esame di laboratorio, fondato sulla scienza dell’osservazione, che però diventava diagnosi e strumento di prognosi. L’uroscopia, interpretata in modo arbitrario, si trasformava in uromanzia.

La chirurgia, trascurata dagli arabi, assurse a disciplina scientifica: si ebbe grazie a Ruggiero da Frugardo, l’autore nel 1180 del trattato “Cyrurgia Magistri Rogerii” una sistematica codificazione delle fondamentali norme dell’insegnamento chirurgico.

V0014458 Teaching Hospital School, Salerno, Italy: part of the Crypt
Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images
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Teaching Hospital School, Salerno, Italy: part of the Crypt of St. Maria. Pen and ink drawing by [J.N.T.].
By: J. N. T.Published: –
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Ildegarda di Bingen

Intorno al X secolo sono quasi sempre i monaci a gestire una assistenza medica collettiva, come le infermerie monastiche e le chiese con gli annessi hospitalia, o ospizi, come si definiranno a partire dall’XI secolo.

In questo contesto emergono figure di intellettuali che sono anche curanti, come Ildegarda di Bigen, (1098-1179) una delle più singolari e affascinanti protagoniste di questo periodo.

Badessa benedettina, divenuta magistra, e poi anche santa, traeva dalla sua natura di donna malinconica, dal suo spirito di donna mistica e dalla sua sapienza la facoltà profetica che la rendeva “oracolo di Bigen”. La sua arte dialettica la rese interlocutrice di papa Eugenio III e dell’imperatore Federico Barbarossa.

Le sue doti visionarie le permisero di riunire teologia, etica, musica e arte in un’unica idea di uomo, creazione e cosmo, e anche i suoi trattati di medicina sono influenzati da questa nuova concezione. Sulla base della concezione globale del mondo proposta da Ildegarda,

non solo al momento di curare la malattia, ma già prima del suo insorgere.

Una visione che prevedeva una attenzione agli altri “per amore verso Dio” in quanto “proprio Lui che possiede le ricchezze del Cielo, è sceso umilmente fra i poveri” che vanno dunque accolti e mantenuti. In opposizione alla cultura del suo tempo che disprezzava il corpo come fonte di ogni male, Ildegarda affermava: “L’anima e il corpo sono una sola realtà. Grazie a corpo, anima e mente l’uomo è completo e in grado di agire e può fare cose meravigliose…”. E ancora: “corpo e anima vivono insieme e si fortificano a vicenda come fa il firmamento coi pianeti: collaborano e si rafforzano”.

Fra gli scritti di Santa Ildegarda vi sono 6 dei 9 volumi della raccolta “Physica” in cui si esamina cosa si deve fare per mantenere la salute, e cinque volumi che costituiscono il “Libro della medicina composta” dove si studia come si generano le malattie e come si curano. Negli altri testi vengono trattate le scienze naturali, ma anche l’azione sull’organismo umano di tutto ciò che è commestibile.

Un’altra famosa opera è l’ “Herbaria semplicium”, che raccoglie tutte le piante coltivate nei conventi da cui venivano tratti i rimedi. Nei libri di Ildegarda ricorre il termine latino Viriditas, che indica letteralmente ciò che è di colore Verde e che germogliando esprime freschezza e vigore. Con questo termine si intende la vitalità, l’energia creativa, che si perde quando viene a mancare la fede e subentra l’aridità del cuore, permettendo l’entrata di tutte le malattie.

Un nuovo modello di assistenza: la medicina monastica medievale

Con la caduta dell’Impero Romano di Occidente nel 476 si ebbe una certa tranquillità negli animi, dopo il tumulto delle invasioni barbariche che aveva anche impedito l’evolversi degli studi.

Una certa fioritura culturale si ebbe invece durante il regno di Teodorico, grazie alla presenza del suo assistente Cassiodoro. Un periodo che permise di riportare anche l’insegnamento della medicina, oltre che alla regolamentazione della professione medica. Nel corso del primo millennio, in Occidente grazie a figure come la sua, rimase in vita una modesta tradizione di insegnamento e di circolazione dei testi, rimasti in vita come abbiamo avuto modo di scrivere, grazie ai medici arabi e ai compilatori bizantini.

Le attività di assistenza ai malati, in una certa misura di trasmissione dei testi medici, ma anche un impegno nel campo della farmacologia è strettamente legata alla vicende del monachesimo e alla creazione degli ordini regolari, in quella che viene definita “medicina monastica”. Proprio grazie ai monasteri che si concentra l’attività di trasmissione dei testi medici e farmacologici, oltre alla pratica ad essa collegata.

Per tutto il periodo dell’alto Medioevo quello che rimane della cultura classica e delle pratiche di vita comunitaria è custodito nelle abazie: Benedettini, Cistercensi e Cluniacensi abbracciano l’ideale della caritas e dell’assistenza, che comprendeva tutti i fragili e i deboli.

In particolare, in Occidente questa attività viene inquadrata in modo organico nel monachesimo benedettino: San Benedetto viene considerato fondatore del monachesimo occidentale, di cui fu anche primo vero legislatore.

Nato a Norcia nel 480, dedicò ai Santi Cosma e Damiano il primo dei monasteri che fece costruire a Montecassino. Mise nella sua “Regola” quale primo dovere del monaco, quello della cura ai malati: prendersi cura dell’infirmus significava non solo dare da mangiare e bere, ma anche saper lenire i dolori, curare le ferite, medicare le piaghe, curare le malattie interne.
Per questo tipo di attività, era necessario avere una certa preparazione: nacque il monacus infirmarius a cui era affidata l’assistenza sanitaria del monastero. Ma egli inoltre si dedicava alla coltivazione delle piante medicinali contenute nell’ “Orto dei semplici”, utilizzate per la preparazione dei farmaci.

I testi di medici tra il VII e il X secolo sono per la maggior parte, compilazioni di carattere pratico, come ricettari o collezioni di prescrizioni terapeutiche, prive di un quadro generale e di un metodo.
A partire dall’XI secolo, nelle abazie emerge inoltre la distinzione tra curanti che si occupano di diverse funzioni: flobotomo, infermiere, medico.
La medicina monastica, nata in un primo momento per i bisogni del monastero, si diffuse anche fuori dalle mura monastiche diventano medicina laica.