Storia -breve- dell’Ospedale di Alessandria

L’Ospedale Santi Antonio e Biagio nella sua doppia dedica, risalente al 1566-1567, sembra già contenere in sé il suo destino e la sua storia che ancora oggi si sta sviluppando in piena coerenza con l’originario legame tra il luogo di cura e i bisogni di salute della comunità già afflitta da quelle patologie che verranno poi indicate come “ambientali”.

Questa significativa intitolazione, infatti, rispondeva alla precisa volontà di porre l’ospedale e quindi la città intera dei sofferenti sotto la protezione dei due principali santi medievali della pietà.

Nello specifico si tramanda che i fedeli accorressero numerosi per ottenere guarigioni da Sant’Antonio, l’eremita che veniva considerato il difensore dei poveri ma anche il protettore da tutti i tipi di contagio come l’erpes zoster, ovvero quel fuoco di Sant’Antonio che si ritrova simbolicamente nella sua iconografia. A San Biagio, invece, venne attribuita la capacità di difendere dal mal di gola dopo aver salvato un bambino che stava per morire soffocato a causa di una lisca di pesce. Entrambi i santi quindi incarnano la protezione dai mali del corpo e dello spirito, rappresentando i maestri di carità che, grazie alla loro salda fede e alta moralità, riescono a sopportare il dolore e le privazioni. Concetti davvero importanti e sentiti dagli uomini del Medioevo ai quali le malattie contagiose, le carestie e le miserie apparivano come prove imposte da Dio o addirittura punizioni.

Facendo un passo indietro, l’ospedale di San Biagio e quello di Sant’Antonio costituivano due degli originari undici ospedali della città di Alessandria.

Il primo, già documentato in un atto del 1353, era situato nel quartiere Rovereto e ospitava soltanto ricoverati maschi. L’ospedale di Sant’Antonio, posto nell’attuale via Treviso, viene ricordato in atti di fine Quattrocento: era forse il più importante e in esso venne incorporato proprio l’ospedale di San Biagio attraverso una ristrutturazione che durò circa un quinquennio dal 1566, primo anno di pontificato del papa alessandrino Pio V Ghislieri, al 1570.
Lo Spedal Grande Santi Antonio e Biagio  occupava un intero isolato di circa 6.000 mq ed era dotato di una piccola chiesa presso la quale aveva sede una confraternita laicale istituita nel 1585 “per compiere opere di pietà e misericordia verso i poveri ricoverati”.
Nel 1584 fu poi creata una Congregazione generale che procedeva ogni anno ad eleggere la Congregazione dell’Ospedale, composta da un Priore (di solito un medico del Collegio cittadino) e da quattro deputati o regolatori i cui compiti erano molteplici e interessavano sia il campo amministrativo sia quello sanitario, assistenziale e anche religioso.
Il binomio assistenza-sanità, in cui il primo termine prevale, resta la chiave di volta della storia di questo Spedal Grande a cui è necessario sommare la beneficenza pubblica e privata come mezzo di espiazione di peccati individuali e collettivi attraverso l’elargizione testamentaria di beni e rendite. L’ospedale accolse così negli anni numerose Opere Pie, assumendo gradatamente la fisionomia di argine contro la miseria e di erogatore di aiuti alle persone bisognose, fisionomia che mantenne fino al XX secolo.
Verso la fine del 1700, poi, gli amministratori dello Spedal Grande decisero di costruire un nuovo ospedale.
Venne così dato inizio all’esecuzione del progetto dell’architetto Giuseppe Caselli di Castellazzo Bormida e il 10 giugno 1772 fu posta la prima pietra della nuova struttura, aperta ufficialmente il 2 settembre 1790. Le corsie, a forma di T, occupavano la parte centrale del complesso: quella disposta verticalmente era dedicata alle donne, mentre quella disposta trasversalmente era dedicata agli uomini. Nella parte della struttura rivolta a nord si trovavano la camera mortuaria, i sepolcri, l’alloggio del seppellitore e il teatro anatomico per le autopsie; a nord-est si trovavano invece i locali “di servizio” come il magazzino e la scuderia; più a est la cucina e l’atrio; nel lato a sud la farmacia, la camera del portinaio, la sala delle riunioni, il museo e l’accesso ai piani superiori.
Fra il 1887 e il 1890 venne poi completata la monumentale facciata al centro della quale originariamente si apriva l’ampio atrio su colonne, in rapporto con lo scalone in marmo di accesso al piano superiore, in cui si trovava il Salone di Rappresentanza riccamente decorato e contenente i busti dei benefattori.
Molto frenetica fu l’attività dell’Ospedale a partire dalla fine del 1800 quando cominciarono ad avviarsi numerose discipline tra cui la Pediatria dell’Ospedale Infantile nel 1890, l’ambulatorio di Otorinolaringoiatria nel 1895, il Gabinetto di Clinica Microscopica nel 1896 e la Biblioteca Biomedica nel 1902.
Con gli anni Trenta del 1900, poi, si specializzò sempre di più in discipline anche complesse e all’avanguardia per l’epoca con l’apertura ad
esempio del Gabinetto radiologico (1935) e del Centro provinciale diagnosi e cura dei tumori (1938).
Nel 1935 venne inaugurato anche il Sanatorio antitubercolare “Borsalino”, una struttura che a partire dal 1986 venne destinata alle attività di pneumologia e dopo l’alluvione del 1994 subì un restauro completo divenendo attivo come Centro Riabilitativo, quale è ancora oggi.
Nel dopoguerra si assistette poi a una notevole evoluzione dell’Ospedale e della sua offerta medica grazie allo sviluppo, dal 1947 al 1961, dell’Ambulatorio neurologico, dei reparti di Ortopedia e Traumatologia, Cardiologia, Chirurgia, Urologia, Anestesiologia e Neurologia.

La scoperta di Virchow e la classificazione delle malattie

La scoperta di grandissimo valore avvenuta nella medicina effettuata nel 1856 da Rudolph Virchow, che formulò in modo ampio e comprensivo il principio che «la cellula è l’elemento morfologico fondamentale di tutti i fenomeni vitali, sia nel sano come nell’ammalato e che da essa dipende ogni attività vitale» ebbe impatto anche sull’Ospedale di Alessandria.

Tale principio permise di stabilire che le malattie dipendono da un’alterazione strutturale delle cellule dell’organismo. Decadde, così, dopo oltre due millenni, la teoria della «patologia umorale», ideata da Ippocrate e confermata da Galeno, e cedette il posto alla «patologia cellulare» di Virchow.

La scoperta della patogenesi delle malattie fatta da Virchow permise di classificarle in maniera più precisa rispetto alla classificazione allora esistente, secondo la quale erano distinte in mediche o interne e in chirurgiche o esterne, e di uniformare la terminologia usata per formulare la diagnosi e le cause dei decessi nei documenti ospedalieri.

Attraverso lo studio delle alterazioni cellulari prodotte dagli agenti patogeni interni o esterni all’organismo si poté conoscere più a fondo l’essenza delle malattie, formulare una loro più precisa classificazione e anche conoscere i legami che si stabiliscono fra i farmaci e le cellule dell’organismo, e ciò consentì di praticare terapie più specifiche per ogni tipo di malattia, mentre fino allora tutte venivano curate indistintamente con i salassi, i diuretici, i purganti e i diaforetici, per eliminare gli umori eccedenti che si ritenevano responsabili dell’insorgenza di qualsiasi malattia.
Il progresso medico verificatosi in questo periodo nell’ospedale di Alessandria è improntato anche dal cospicuo aumento dei medicinali in dotazione alla sua farmacia, come risulta dagli inventari che venivano effettuati annualmente.
Nello stesso periodo di tempo anche la lotta contro le malattie infettive (allora genericamente chiamate «pestilenze», se avevano un carattere endemico o epidemico), che per secoli avevano flagellato l’umanità causando enormi perdite di vite umane, fu coronata dal più vivo successo, grazie alle scoperte effettuate in questo campo, che permisero di identificare la causa delle loro insorgenze in microorganismi vivi (che vennero chiamati bacilli o batteri), distinti da caratteristiche morfologiche diverse per ogni tipo di infezione.