medici, malati e farmacisti: una breve storia per immagini
La storia della medicina è, soprattutto, la storia dei medici, dei malati e dei farmacisti. A volte il medico fu anche farmacologo, ma quasi mai fu “farmacista”, così come in molti casi il medico fu anche chirurgo ma in moltissimi altri casi, e soprattutto in molte epoche, a partire dalla civiltà greca, il chirurgo venne considerato un “manovale” (come letteralmente significa la parola in greco) e quindi, guardato dall’alto in basso dal medico, che si considerava “scienziato”. Ma medicina, farmacologia e farmacia furono, soprattutto nelle antiche civiltà, strettamente legate alla religione e alla magia. Così si hanno medici-maghi e medici-sacerdoti, farmacisti-maghi e farmacisti-sacerdoti, e a volte il medico-mago o sacerdote coincide con il farmacista-mago o sacerdote.
A partire dal V secolo a.C. si può dire abbia inizio in Grecia la storia della medicina e della farmacologia impostate sotto la prospettiva della scientificità. Il cammino fu lento e faticoso; il concetto stesso di “scientificità” subì mutamenti e addirittura rivoluzioni, ma la strada non venne più abbandonata.
Qui alcune immagini che aiutano a dare un’idea di alcune delle più significative fasi della battaglia della medicina contro la malattia.
Il medico Iapis Isiades estrae una punta di freccia dalla coscian di Enea. Affresco pompeiano“Ero infermo e mi ha assistito”, scene della vita di Santa ElisabettaI Francescani assistono i lebbrosi. Codice di Monteluce, PerugiaLa cauterizzazione di San Francesco. Codice Antoni, RomaL’applicazione di un cauterio ad un paziente. Bodleian Library, OxfordIntervento chirurgico per l’estrazione di un calcolo vescicale. Dall’Hortus sanitatis (Orto della Salute) Juan de Cuba – Magonza 1491Trapanazione del cranio, da Trattato completo sulle ferite di John Brown, Londra 1687
“Medicina come spettacolo: aspettative del pubblico dei medici vista attraverso l’arte e la televisione” il suggestivo titolo di un articolo disponibile a questo link a cura di Rachel Martel, ‘student at NYU Grossman School of Medicine’ come definito nella sua bio.
Il punto di partenza dell’autrice è quello della sala operatoria come palcoscenico: descrive alcuni esempi, a partire da Rembrandt fino a Eakins (che noi abbiamo descritto a questo link) da un punto di vista interessante, ossia quello della visione della risposta del pubblico e delle aspettative dei chirurghi in quel momento. “La pratica di avere osservatori durante un’operazione fornisce una lente attraverso la quale esaminare la prospettiva storica del laico sulla pratica medica. Non solo medici, studenti di medicina e membri della famiglia erano presenti durante la procedura, ma gli artisti potevano essere incaricati di immortalare l’intervento chirurgico in un dipinto”
E strettissimo è il rapporto tra gli artisti e i medici, un rapporto nel quale i primi sono chiamati a dare testimonianza e a documentare l’attività della pratica medica. Rappresentazioni che offrono un indispensabile e affascinante spaccato della società, degli stili di vita e della storia stessa della medicina. Una storia che attraverso l’arte consente di comprendere le tappe e i traguardi raggiunti.
Proprio con la figura del chirurgo è possibile effettuare un viaggio nella storia di questa disciplina considerata inferiore a quella della medicina (fin dai tempi più antichi, come si può leggere qui). Un disciplina indegna, che costringeva a sporcarsi le mani, toccare il sangue e i cadaveri: ecco che la figura del ‘barbiere-chirurgo’ essendo essi già avvezzi all’utilizzo di lame, proprio come i Norcini, ossia i chirurghi di Norcia, che esercitarono per molte generazioni l’operazione della pietra e quella della cataratta.
Va detto che prima dell’introduzione di alcune misure igieniche basilari e dell’anestesia – entrambe introdotte nell’Ottocento – l’abilità del chirurgo era dettata dalla velocità di esecuzione su interventi come l’estrazione dei calcoli, la cauterizzazione di ferite, l’asportazione di piccoli tumori e l’incisione di ascessi, fino alle amputazioni.
Un esempio di attività, con la rappresentazione dello studio del chirurgo, si trova nel dipinto del fiammingo Davis Teniers – Il chirurgo – del 1670, nel quale l’espressione dell’assistito fa emergere chiaramente il dolore dell’intervento. Ma oltre al dolore del paziente, emerge con chiarezza l’ambiente: dalla totale mancanza di ogni pratica igienica alla presenza di numerosi assistenti, che operano in abiti quotidiani e in una grande confusione.
Davis Teniers – Il chirurgo – 1670
Grazie alla collezione della Welcome library possiamo invece scoprire una delle altre pratiche eseguite, ossia quella della cauterizzazione, che consisteva nel nell’arroventare un ferro e metterlo a contatto con la ferita, producendo un effetto emostatico -ma anche dolorosissimo- attraverso la bruciatura.
la cauterizzazione delle ferite – Gersdorff, Hans von, -1529.
Un’altra delle pratiche, come detto, era quella dell’eliminazione dei tumori: in questa immagine è possibile vedere l’asportazione di un tumore alla mammella di un uomo, eseguita all’interno di quello che sembra essere un salotto: siamo all’inizio dell’Ottocento, ma l’immagine appare ancora molto cruenta.
Solo grazie all’introduzione della pratica del lavaggio delle mani, con Semmelweis che intuì la trasmissione batterica attraverso le mani, e grazie a Joseph Lister con i suoi studi di batteriologia e con l’introduzione dell’acido fenico nell’ambiente operatorio, cambia anche la rappresentazione della scena operatoria.
È bianco, segno di pulizia e igiene, il campo operatorio del teatro anatomico presente nell’opera dell’artista austriaco Adalbert Seligmann, del 1888-90 (Dr.Theodor Billroth in the Lecture Room at Vienna General Hospital) con il paziente addormentato.
Due gli elementi da sottolineare: la presenza del teatro anatomico, che ospitava studenti ma non solo, in quanto le dissezioni pubbliche sono state nei secoli veri e propri eventi mondani, come emerge anche dall’immagine di copertina di Skarbina Franz, del 1907.
Il paziente addormentato: l’anestesia, infatti, è stato l’altro elemento che ha profondamente cambiato la chirurgia.
Con il contrasto al dolore, il chirurgo poté lavorare con il paziente sedato, e senza la necessaria rapidità che era richiesta fino a quel momento, con molta maggiore conoscenza di quello che poteva trovare, e con armi adeguate per combattere le possibili complicanze.
Il primato culturale che aveva visto eccellere l’Italia fino al Seicento viene via via messo in discussione e nel campo dell’anatomia a metà del secolo passa alla Germania, dove la scuola anatomica afferente ad Albrecht von Haller conquistò la supremazia in Europa. Leggi tutto “Albrecht von Haller”
La chirurgia era considerata in subordine rispetto alla medicina: nell’Italia antica e nel periodo etrusco non vi sono notizie da segnalare, se non la particolare perizia degli Etruschi in campo odontoiatrico.
Nell’antica Roma, dal 753 a.C. al 476 d.C., la chirurgia iniziò ad essere praticata, anche grazie all’influenza dei greci. Arcagato, nel 220 a.C., diffuse alcune pratiche, sebbene egli fosse piuttosto un medico empirico molto abile a medicare le ferite: nei primi tempi passati della sua attività, le sue guarigioni furono così spettacolari che il Senato gli concesse il titoli di cittadino romano ed permise l’apertura a spese dello stato di una bottega, chiamata “Medicatrina”. Con il tempo, perse tale favore e – secondo Plinio il Vecchio – venne cacciato da Roma, con il nome di “carnefice”.
All’inizio del I secolo a.C., giunse a Roma Asclepiade, ottimo medico ma chirurgo di scarsa audacia, giudicato da Galeno con grande severità. Di lui si ricorda il salasso, sebbene sapesse praticare anche la laringotomia nei casi di soffocamento.
Ad Asclepiade è attribuita la formula di operare con sicurezza, rapidamente e senza arrecare troppa sofferenza al malato: tuto, cito, iucunde.
Celso ricorda che tra i migliori chirurghi ai tempi di Augusto, va ricordato Megete, di formazione alessandrina: praticò per primo la riduzione della lussazione del ginocchio, fu esperto nel trattamento delle fistole anali e inventò il litotomo.
A cavallo del I secolo d.C. Celso scrisse il De re Medica, che raccoglie tutte le conoscenze mediche dell’epoca pregalenica, con specifici libri sulla chirurgia generale (il settimo libro) e sulla chirurgia delle ossa (l’ottavo libro). Celso, non medico e nemmeno chirurgo, ma grande genio enciclopedico, descrisse uno strumentario chirurgico di oltre duecento pezzi, corrispondenti anche a quelli rinvenuti negli scavi di Pompei. Fabbricati in bronzo, con lama in ferro, erano riccamente decorati e possono essere suddivisi in taglienti (coltelli, forbici, seghe) pinze (forcipes, pinze a dente di topo, pinze da denti), specilli (a punta olivare, a spatola, a bottone), sonde (per drenaggi, toracentesi), aghi sa sutura, trapani di vario tipo.
Il materiale da medicazione era costituito da bende di lino, dalla lana e dalla stoppa, usata per le sue proprietà assorbenti.
La dovizia di tale armamentario chirurgico fa pensare che il campo di intervento si fosse ampliato, come dimostrano i numerosi interventi descritti da Celso: egli descrive il trattamento delle ferite profonde dell’addome, le differenti tipologie di cura per le ferite superficiali, l’amputazione degli arti, per la quale veniva praticata la legatura preventiva dei vasi e la preparazione dei lembi per ricoprire il moncone.
Descrive il trattamento delle varici, trattate con legature e cauterizzazione; gli interventi di emorroidi e fistole anali. Celso inoltre si sofferma nella descrizione delle ernie delle pareti addominali e un posto importante è occupato dalla descrizione del procedimento di autoplastica cutanea del naso e della guancia: principio da lui descritto per primo, poi dimenticato e reinventato dai chirurghi francesi.
Interessante, nel capitolo dedicato alla chirurgia delle ossa, la sezione sulla trapanazione del cranio: intervento praticato mediante perforazioni multiple, con il trapano conico ed escissione dei punti ossei intercalari. Viene esplicitamente messa in luce l’indicazione fornita dalla rottura di un vaso della dura madre con effusione sanguigna intracranica.
Nel I secolo d.C. non vi sono personaggi da segnalare, mentre nel II secolo, sotto l’impero di Traiano, comparvero insigni chirurghi come Sorano d’Efeso, Archigene, Rufo d’Efeso ed Eliodoro.
Sorano d’Efeso viene considerato il padre dell’ostetricia.
Archigene, chirurgo audace, operò il cancro della mammella, si occupò di quello dell’utero, creò una tecnica per l’amputazione degli arti.
Rufo d’Efeso fu autore di un trattato di cui sono pervenuti solo alcuni frammenti e il chirurgo che godette di maggior stima fu Eliodoro. Pare sia stato il primo a praticare la legatura e la torsione a scopo emostatico; descrisse la trapanazione nei traumi cranici; eseguì l’amputazione di mani e piedi per gangrena, ponendo al di sopra della zona da sezionare un laccio emostatico, precedendo di secoli la scoperta di Esmark per la compressione temporanea dei vasi dell’arto da amputare.
“Per guarire le ferite si deve favorire l’insorgenza in esse della suppurazione” sosteneva Ippocrate, avendo intuito che la suppurazione fosse un fenomeno naturale e utile per la guarigione delle ferite.
Il termine sepsi – che deriva dal greco e significa “putrefazione” – venne inizialmente usato per indicare le infezioni delle ferite in generale.
Fino alla metà del XIX secolo, la chirurgia era gravata da una elevata mortalità, tanto che il chirurgo scozzese James Young Simpson (1811-1870) scriveva che “il paziente steso sul tavolo operatorio di uno dei nostri ospedali chirurgici, corre maggior pericolo di morte che il soldato inglese sul campo di battaglia di Waterloo”.
Le cause erano principalmente tre:
emorragia per scarsa validità dei mezzi con cui si praticava l’emostati
shock neurogeno da dolore per mancanza di anestesie efficaci
infezioni chirurgiche per l’assenza di qualsiasi principio antisettico
Il primo studioso ad utilizzare l’acido fenico come antisettico fu Lister, che nel 1865 trattò per la prima volta una ferita con il suo metodo, che descrisse su Lancet nel 1867. Ma tale metodo venne utilizzato anche dal Bottini, che trattò nella sua pubblicazione “Dell’acido fenico nella chirurgia pratica e nella tassidermica” apparsa nel 1866 sugli annali di Universali di Medicina.