“La cura attraverso l’arte”: una mostra organizzata dalla AUSL della Romagna

La mostra dal 4 al 16 aprile per scoprire le perle del patrimonio storico e artistico della Ausl Romagna

Gli ospedali storici raccontano la storia delle donne e degli uomini che, nel corso dei secoli, si sono impegnati per stare accanto ai più fragili, a coloro che soffrono, dando loro un sostegno materiale, spirituale e preoccupandosi della salute dei singoli individui e della collettività.
Sono luoghi in cui l’arte ha sempre avuto un ruolo imprescindibile nel processo di cura, che metteva al centro la persona nella sua interezza di corpo e spirito. Gli ospedali erano “ospitali”, strutture destinate ad una assistenza indifferenziata, dove le prime tecniche di medicina si mescolavano alla religione e alle credenze dell’epoca.
In quei tempi così diversi, lontani dalle conoscenze e dai reparti polifunzionali di oggi, gli ospedali erano anche luoghi ricchi di meravigliose opere d’arte.

In questo percorso di valorizzazione dei luoghi e del binomio cultura e cura, si inserisce la mostra LA CURA ATTRAVERSO L’ARTE, curata da Sonia Muzzarelli e Paolo Trioschi, promossa congiuntamente dal Comune di Ravenna, dall’Ausl Romagna, dal MAR – Museo d’Arte della città di Ravenna e da Acosi – Associazione culturale ospedali storici italiani visitabile dal 4 marzo al 16 aprile a Palazzo Rasponi dalle Teste, Ravenna.

Sonia Muzzarelli, Conservatore Beni Culturali Ausl della Romagna e curatrice della mostra “La cura attraverso l’arte”

L’Azienda USL della Romagna è proprietaria di un importante patrimonio storico, artistico, archivistico che documenta, attraverso la sua produzione artistica, e non solo, seicento anni di storia sociale e sanitaria di una delle più grandi Aziende sanitarie italiane.
Dopo un lungo periodo di studio e riordino che ha visto, dove era possibile, la ricollocazione di parte della collezione nelle città di origine, l’Ausl della Romagna ha reso fruibile la propria collezione arricchita da “quaderni tematici”, curati e pubblicati dall’Ausl della Romagna.

Il percorso pensato si divise in sei sezioni: nelle sale di Palazzo Rasponi dalle Teste, nel cuore di Ravenna, vengono presentati alcuni dei tesori dell’intera collezione Ausl Romagna, provenienti dai territori d’origine: Ravenna, Forlì, Cesena e Rimini.
In mostra sono presentati alcuni strumenti scientifici accanto a venticinque preziosi dipinti realizzati tra il XVI e XX secolo e con importanti presenze artistiche del nostro territorio come: Giambattista Bassi, Maceo Casadei, Luigi Folli, Francesco Longhi, Pietro Melandri.

Il patrimonio di proprietà aziendale, presente su tutto il territorio romagnolo, si caratterizza come “Museo diffuso di arte e storia sanitaria ” visitabile anche su prenotazione. Tutte le informazioni sono disponibili a questo link https://www.auslromagna.it/comunita/cura-attraverso-arte che contiene inoltre la serie delle pubblicazioni del patrimonio storico e le rubriche con le curiosità realizzate per la divulgazione di questa storia così affascinante.

Arte, medicina, relazione

Là dove il grigio aveva spento ogni sia pur remoto desiderio d’essere qualcos’altro che grigio, solo là cominciava la bellezza.
Italo Calvino
Le cosmicomiche, Mondadori

 

La Medicina rappresenta forse il più antico elemento unificante tra scienza e arte, come già indicato da Ippocrate nel trattato Sull’Arte, databile all’ultimo scorcio del V secolo a.C. che pone tra i suoi scopi quello di individuare quali sono le caratteristiche che fanno della medicina una téchne, cioè una competenza in grado di ottenere un risultato pratico (il ristabilimento della salute), in base a un metodo che si fonda principalmente sulla conoscenza del “perché”.

Il concetto è illustrato da Valentina Gazzaniga (Dalla cura alla scienza: Malattia, salute e società nel mondo occidentale di Maria Conforti, Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga): «La medicina è quella competenza acquisibile e trasmissibile, frutto della combinazione accorta tra una consapevolezza dei principi teorici e un “saper agire”, e destinata alla creazione, o meglio “ricreazione” di un prodotto, che è la salute perduta. Essa si distingue sia dall’epistéme, il sapere astratto e tendente a una dimensione assoluta, sia dalla tribé, la competenza degli artigiani che si sviluppa sulla base di un procedimento empirico puro, fondato su un andamento “per prova ed errore”; essa consente di ripetere potenzialmente all’infinito una produzione con modalità corrette, ma senza in alcun modo incrementare la conoscenza. (…) La medicina come téchne è in grado di “stabilire distinzioni normative” e di definire l’ambito del corretto agire; il buon medico è colui che sa quello che deve fare, perché conosce le cause delle malattie “visibili ed invisibili” (Sull’arte, 9-11). Il corpo malato risponde, come ogni altra realtà sensibile, a precisi nessi temporali e causali; la téchne prevede la capacità di costruire storie che, partendo dal passato (la raccolta dei dati anamnestici; il racconto del vissuto di malattia del paziente), possano consentire la comprensione del presente (i sintomi; le modificazioni del corpo) per prevedere la conclusione, positiva o negativa, della vicenda che il corpo stesso racconta (la prognosi come capacità di dire se, quanto ed in quali condizioni durerà la malattia). La ferma applicazione di questo metodo esclude il caso, e le sue tragiche conseguenze, dalla storia dei malati».

Una visione che pone enfasi sul rapporto tra medico e paziente, ma da cui emerge la figura del medico, che racchiude la scienza, ossia la capacità di conoscere e comprendere le circostanze relative alla salute dell’uomo e l’arte quale capacità di applicare tale conoscenza alla cura delle malattie.

Medico, paziente, dolore, malattia, concetti che sono stati da sempre al centro della storia dell’uomo attraverso l’arte, che ha colto nel corso secoli attraverso l’opera degli artisti la dimensione umana e spirituale della malattia, la sofferenza, ma anche la relazione, proprio come emerge nel manoscritto di Laurenziano Gaddi (Biblioteca Laurenziana, Firenze, Italia) databile intorno al 1300 circa. Una immagine in un certo senso moderna, che fa comprendere come la relazione tra medico e paziente fosse realtà negli ospedali medievali: i ricoverati sono a letto, accuditi e nutriti (al centro dell’immagine il gesto del medico, riconoscibile per il copricapo rosso, che aiuta il paziente a portare il cibo alla bocca).

Nelle due immagini in primo piano, a destra un medico che sta detergendo una ferita, dal lato opposto un medico intento a fornire spiegazioni al paziente, che ascolta con attenzione con il braccio appeso al collo a causa probabilmente di un trauma. Gesti che richiamano l’oggi e che sono pervenuti a noi grazie a questa straordinaria opera.

 

Le malattie degli occhi: storia e rappresentazione

L’Oculistica incominciò a diffondersi a Roma verso il I secolo a.C., come viene attestato da un certo numero di stele funerarie in cui sono menzionati i “medici oculari” e i “chirurghi oculari”, inizialmente distinti, poi riuniti in una unica figura. Il V e il VII libro del “De Medicina” di Celso sono dedicati all’Oculistica e vengono descritte trentasei malattie, tra cui congiuntiviti, ulcere, tumori – è stato Celso ad individuare l’epitelioma delle palpebre – la cataratta e altre patologie.
Si tratta di una disciplina specifica della medicina di cui abbiamo narrato l’evoluzione nei secoli, a partire appunto dall’antica Roma passando dal Rinascimento  per arrivare al Settecento  con la celebre figura di Antonio Scarpa.

Da sempre si è cercato di individuare metodi risolutivi per migliorare il più possibile le condizioni del paziente affetto da patologie all’occhio, malattie che sono state rappresentate nella storia dell’arte poiché molto diffuse tra le varie popolazioni di tutte le epoche storiche.

Pieter Bruegel the Elder (1568) La parabola dei ciechi

Gli occhi sono sempre stati considerati preziosi nella storia dell’umanità, poiché permettono di vedere ciò che ci circonda, individuare e selezionare il cibo, accorgersi e quindi evitare pericoli; ne consegue che, fin dalle civiltà più antiche, l’uomo abbia cercato di preservare gli occhi da malattie e inconvenienti vari. Il kajal (o khol) costituiva una cura naturale per gli occhi, antica cinquemila anni, utilizzata dai popoli dei luoghi più assolati e caldi del mondo, quindi l’India, l’Arabia, e l’Africa (in particolar modo in Egitto). Questo rimedio si preparava in casa ogni giorno, con un piccolo rito, impastando ingredienti naturali con proprietà idratanti, lenitive, antibatteriche, decongestionanti e antinfiammatorie; veniva posto sulle rime oculari e sulle palpebre di uomini, donne e bambini, per proteggere, idratare e disinfettare gli occhi. Gli abitanti dell’antico Egitto erano particolarmente dediti alla cura del proprio corpo, sia sotto il profilo igienico, che estetico: il kajal nasce dapprincipio con scopi sanitari, il lato estetico della sua applicazione venne aprezzato nel tempo, quando gli Egizi inventarono la cosmesi, ornandosi lo sguardo con eyeliner e ombretti a base di khol e notarono che il trattamento rendeva lo sguardo più ampio e profondo.

la figura Maschera di mummia femminile https://collezioni.museoegizio.it/it-IT/material/S_8470 è uno dei tanti esempi di occhi egizi trattati con questo rimedio dalla duplice funzione.

La condizione più riscontrabile in opere d’arte è quella della cecità, ossia la forma più pronunciata di disabilità oculare, con una mancanza totale o parziale della percezione visiva di uno o di entrambi gli occhi.

George de la Tour (Suonatore di ghironda, 1620)

Tra i dipinti più noti vi è quello del francese George de la Tour (Suonatore di ghironda, 1620), il quale, con un realismo crudo e impietoso, ritrae il ghigno deformante che attraversa il viso di questo musicista cieco, intento a suonare uno strumento tipico degli artisti ambulanti, la ghironda.

Josephus Dyckmans (Il mendicante cieco, 1852)

Anche il belga Josephus Dyckmans (Il mendicante cieco, 1852) testimonia come molto spesso persone affette da cecità, colpite da grave disabilità, fossero destinate a vivere ai margini della società, costrette quindi all’elemosina o a guadagnarsi da vivere come musicisti di strada: il tema iconografico del “mendicante cieco” è stato assai sfruttato dagli artisti sei—settecenteschi per riscattare e documentare, almeno attraverso l’arte, una classe sociale debole, povera e oppressa.

Altra patologia visiva facilmente riscontrabile soprattutto nella ritrattistica, è lo strabismo, disturbo oculistico caratterizzato da una deviazione degli assi visivi, causata da un malfunzionamento dei muscoli oculari; la presenza di questa problematica oftalmica nell’arte è legata all’esigenza, in auge in tutte le epoche, di acquisire documenti iconografici sui personaggi storici. I vari soggetti, appartenenti a tutte le classi sociali, uomini e donne, ecclesiastici, guerrieri, sovrani e persone del popolo, venivano ritratti fedelmente e con realismo, indipendentemente dai difetti fisici.

Ritratto Cosimo de’ Medici in armatura, 1545

Esistono quindi numerosi ritratti grazie ai quali oggi sappiamo chiaramente che gli effigiati erano affetti da strabismo: tra questi, ad esempio, Cosimo de’ Medici, raffigurato da Agnolo Bronzino (Ritratto Cosimo de’ Medici in armatura, 1545), oppure il Cardinale Tommaso Inghirami, dal pennello di Raffaello Sanzio (Ritratto del Cardinale Tommaso Inghirami, 1514) : entrambi i soggetti manifestano, in un solo occhio, uno strabismo divergente, di entità differente, e più accentuata nel Cardinale.

Ritratto del Cardinale Tommaso Inghirami, 1514

Per quanto concerne, invece, i difetti di rifrazione, per molti secoli non ci fu soluzione, fino a che si pensò alla fabbricazione di lenti che correggessero il problema e permettessero una visione migliore: sebbene primissimi e rudimentali prototipi di lenti vennero approntati nell’antichità romana, grazie a pietre e vetri, la svolta ci fu nel XIII secolo, quando alcuni monaci italiani svilupparono una lente semisferica fatta di cristallo di rocca e quarzo, in grado di ingrandire le lettere se posizionata su una pagina scritta. Questa ”pietra da lettura” fu una benedizione per molti monaci anziani che soffrivano di presbiopia e migliorò notevolmente la qualità della loro vita; mentre le pietre da lettura riuscivano ad aiutare molte persone nella vita di ogni giorno, erano ancora lontane dall’essere dei veri e propri occhiali come li conosciamo oggi.

L’innovazione arrivò attorno al 1280, presso le vetrerie dell’isola di Murano, a Venezia, ove i vetrai realizzarono qualcosa di portentoso: per la prima volta riuscirono a molare due lenti convesse e a incastonarle in due cerchi di legno uniti da un segmento e un rivetto: questo primo prototipo non presentava alcun elemento che lo tenesse fissato alla testa del portatore, ciononostante, in quell’epoca erano il miglior ausilio desiderabile per il comfort visivo; per poter vedere meglio, chi indossava questi “occhiali a rivetto” doveva tenerli con le mani fermi davanti agli occhi, quindi erano utilizzati solo al bisogno, poiché non vi era ancora modo di portarli con continuità durante il giorno.
Con il passare dei secoli, i maestri vetrai sostituirono il segmento degli occhiali a rivetto con un arco, e il materiale della montatura passò dal legno, cuoio, tartaruga, stecche di balena e osso, al metallo, il quale, essendo più elastico, con l’opportuna sagomatura del ponte permise di ottenere occhiali che si reggessero da soli sul naso. L’esigenza di occhiali “autoreggenti” si fece sempre più impellente con l’invenzione della stampa (1455) e il conseguente incremento esponenziale dell’editoria, che diede un grande impulso anche all’ottica.
Dopo vari tentativi e ricerche atte a trovare la modalità per fissare stabilmente gli occhiali al volto, e poterli indossare continuativamente, finalmente, grazie all’ottico inglese Edward Scarlett (1688—1743), nel 1727 furono dotati di aste che premevano sulle tempie, dando origine ai cosiddetti “occhiali da tempia”.

L’invenzione degli occhiali è inserita tra le acquisizioni più importanti dell’umanità, assieme a quella della ruota e alla scoperta del fuoco; nell’arte più antica, naturalmente, non compaiono occhiali, accessorio che divenne però ben presto elemento per delineare la figura dello studioso, del medico e del chirurgo, ma anche degli apostoli e dei profeti, a indicare saggezza, vecchiaia e approfondimento.

affresco di Tomaso da Modena (Cardinale Ugo di Provenza, 1352)

L’affresco di Tomaso da Modena (Cardinale Ugo di Provenza, 1352), appartenente a un ciclo che ritrae quaranta frati domenicani illustri, intenti in attività intellettuali quali lettura, scrittura, riflessione e trascrizione di testi, è ritenuta la prima raffigurazione nella storia dell’arte degli occhiali. L’opera, datata 1352, quindi circa settant’anni dopo l’invenzione dello strumento visivo, ci mostra il primo modello a rivetto, con perno centrale che permetteva di richiudere gli occhiali facendo scorrere una lente sull’altra. Appare curioso come il soggetto ritratto, il Cardinale Hugues de Saint—Cher, nominato nel 1244, abbia entrambe le mani sul tavolo: non sappiamo quindi come facessero gli occhiali a reggersi sul suo volto, ma è possibile che si tratti di una raffigurazione di fantasia e l’artista abbia sottovalutato questo fattore.

Qui alcune tra le opere più note raffiguranti gli occhiali a rivetto

Dettaglio. La Madonna del canonico van der Paele è un dipinto olio su tavola (122,1×157,8 cm) di Jan van Eyck, datata 1436 e conservata nel Museo Groeninge a Bruges.
L’apostolo degli occhiali di Konrad von Soest
Friedrich Herlin: La circoncisione di Cristo, 1466 (Polittico di Rothenburg, Germania)

Arte e anatomia

L’anatomia è la scienza biologica che studia la forma e la struttura degli esseri viventi. Il suo nome (dal latino tardo anatomía, a sua volta derivato dal greco ἀνατέμνω, “tagliare, sezionare”) è legato alla pratica della dissezione, che fin dall’antichità ha costituito il principale metodo di indagine di questa disciplina.
L’anatomia anatomica è invece lo studio dell’anatomia condotto sezionando animali (scimmie e, soprattutto, maiali) e riferendo all‘uomo le strutture osservate nell‘animale. Non si tratta, quindi, di anatomia comparata, bensì di anatomia che si fonda sul principio di analogia (essendo X ed Y estremamente simili, quanto si osservi e si verifichi in X vale anche per Y, che Platone e Aristotele avevano considerato scientificamente valido e applicato da Galeno nella tarda antichità, fino al Medioevo. Una visione che unita agli ostacoli di ordine religioso, determina una profonda involuzione degli studi anatomici fino al 1315 quando, per merito di Mondino de’ Liuzzi, l’anatomia ritrova nelle dissezioni sul cadavere la base delle sue indagini e del suo insegnamento senza peraltro sganciarsi dal dogmatismo imperante e quindi senza portare al superamento dei numerosi errori di Galeno.

Alcune tavole dell’Anatomia di Mondino nel commento di Berengario da Carpi. Uno scorticato con il petto aperto guarda e mostra il proprio cuore. Come tutte le altre, anche questa tavola è stata eseguita, in gran parte, dal vero.
Lezione medievale di anatomia. Illustrazione del Fasciculus medicinae, di J. de Ketham. 1491
Ma il vero protagonista della storia dell’anatomia è il fiammingo Andrea Vesalio che nel 1543 pubblicò De humani corporis fabrica il primo libro della storia che conteneva figure anatomiche in tre dimensioni, così come faceva la pittura rinascimentale.
Da citare poi Leonardo da Vinci (1452 - 1519), personificazione del genio rinascimentale che rivoluzionò sia le arti figurative sia la storia del pensiero e della scienza, oltre che profondo studioso delle ricerche anatomiche, disponibili grazie alla Royal Collection Trust di Londra che ha digitalizzato e messo online, gratuitamente, il suo straordinario archivio leonardesco
In questa immagine Wilbelm Fabry (Fabricius Hildanus) (1560—1634) esprime la sua profonda convinzione circa la necessità degli studi di anatomia per il medico: ai piedi del teschio un remo ed una chiave con la scritta «L'anatomia è il remo e la chiave della medicina».
Galileo ebbe una prima, genialissima intuizione dell‘anatomia comparata. Questo il disegno con il quale illustrò quali proporzioni avrebbe dovuto avere un femore (sopra) rispetto ad un femore normale (sotto), per reggere il carico di un animale tre volte più grande di quello retto dal femore normale.
Nel ricordare l’anatomia non si può non citare la celebre Lezione di anatomia del dottor Tulp, un dipinto a olio su tela realizzato da Rembrandt nel 1632, firmato e datato "REMBRANDT. F:1632" conservata oggi al Mauritshuis dell'Aia.
Sempre a cavallo tra arte e anatomia, il lavoro di Jean-Galbert Salvage (1770–1813), medico militare dell'era napoleonica, che ha basato i suoi disegni sulle dissezioni dei soldati uccisi. Qui la sua opera
Il patologo scozzese Robert Carswell (1793 – 1857) è conosciuto per le sue illustrazioni di anatomia morbosa: questo disegno del 1838 mostra l'atrofia delle circonvoluzioni cerebrali nella Paresi Generale (chiamata anche Paralisi Generale dei Pazzi), una condizione associata alla sifilide terziaria
Fonte https://archiveandlibrary.rcsed.ac.uk/

Chirurgia e arte: una storia di secoli

“Medicina come spettacolo: aspettative del pubblico dei medici vista attraverso l’arte e la televisione” il suggestivo titolo di un articolo disponibile a questo link  a cura di Rachel Martel, ‘student at NYU Grossman School of Medicine’ come definito nella sua bio.

Il punto di partenza dell’autrice è quello della sala operatoria come palcoscenico: descrive alcuni esempi, a partire da Rembrandt fino a Eakins (che noi abbiamo descritto a questo link) da un punto di vista interessante, ossia quello della visione della risposta del pubblico e delle aspettative dei chirurghi in quel momento. “La pratica di avere osservatori durante un’operazione fornisce una lente attraverso la quale esaminare la prospettiva storica del laico sulla pratica medica. Non solo medici, studenti di medicina e membri della famiglia erano presenti durante la procedura, ma gli artisti potevano essere incaricati di immortalare l’intervento chirurgico in un dipinto”

E strettissimo è il rapporto tra gli artisti e i medici, un rapporto nel quale i primi sono chiamati a dare testimonianza e a documentare l’attività della pratica medica. Rappresentazioni che offrono un indispensabile e affascinante spaccato della società, degli stili di vita e della storia stessa della medicina. Una storia che attraverso l’arte consente di comprendere le tappe e i traguardi raggiunti.

Proprio con la figura del chirurgo è possibile effettuare un viaggio nella storia di questa disciplina considerata inferiore a quella della medicina (fin dai tempi più antichi, come si può leggere qui). Un disciplina indegna, che costringeva a sporcarsi le mani, toccare il sangue e i cadaveri: ecco che la figura del ‘barbiere-chirurgo’ essendo essi già avvezzi all’utilizzo di lame, proprio come i Norcini, ossia i chirurghi di Norcia, che esercitarono per molte generazioni l’operazione della pietra e quella della cataratta.

Va detto che prima dell’introduzione di alcune misure igieniche basilari e dell’anestesia – entrambe introdotte nell’Ottocento – l’abilità del chirurgo era dettata dalla velocità di esecuzione su interventi come l’estrazione dei calcoli, la cauterizzazione di ferite, l’asportazione di piccoli tumori e l’incisione di ascessi, fino alle amputazioni.

Un esempio di attività, con la rappresentazione dello studio del chirurgo, si trova nel dipinto del fiammingo Davis Teniers – Il chirurgo – del 1670, nel quale l’espressione dell’assistito fa emergere chiaramente il dolore dell’intervento. Ma oltre al dolore del paziente, emerge con chiarezza l’ambiente: dalla totale mancanza di ogni pratica igienica alla presenza di numerosi assistenti, che operano in abiti quotidiani e in una grande confusione.

https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Physicians_by_David_Teniers_the_Younger?uselang=it#/media/File:The_Surgeon_by_David_Teniers_the_Younger
Davis Teniers – Il chirurgo – 1670

Grazie alla collezione della Welcome library possiamo invece scoprire una delle altre pratiche eseguite, ossia quella della cauterizzazione, che consisteva nel nell’arroventare un ferro e metterlo a contatto con la ferita, producendo un effetto emostatico -ma anche dolorosissimo- attraverso la bruciatura.

la cauterizzazione delle ferite – Gersdorff, Hans von, -1529.

Un’altra delle pratiche, come detto, era quella dell’eliminazione dei tumori: in questa immagine è possibile vedere l’asportazione di un tumore alla mammella di un uomo, eseguita all’interno di quello che sembra essere un salotto: siamo all’inizio dell’Ottocento, ma l’immagine appare ancora molto cruenta.


Solo grazie all’introduzione della pratica del lavaggio delle mani, con Semmelweis che intuì la trasmissione batterica attraverso le mani, e grazie a Joseph Lister con i suoi studi di batteriologia e con l’introduzione dell’acido fenico nell’ambiente operatorio, cambia anche la rappresentazione della scena operatoria.

Come poteva essere un campo operatorio è descritto nell’opera Antiseptic surgery : its principles, practice, history and results / by W. Watson Cheyne, anche grazie alla figura 23 nella quale si vede in modo chiaro lo strumento per la nebulizzazione, che consentiva un ampio spazio di disinfezione.

È bianco, segno di pulizia e igiene, il campo operatorio del teatro anatomico presente nell’opera dell’artista austriaco Adalbert Seligmann, del 1888-90 (Dr.Theodor Billroth in the Lecture Room at Vienna General Hospital) con il paziente addormentato.

Due gli elementi da sottolineare: la presenza del teatro anatomico, che ospitava studenti ma non solo, in quanto le dissezioni pubbliche sono state nei secoli veri e propri eventi mondani, come emerge anche dall’immagine di copertina di Skarbina Franz, del 1907.

Il paziente addormentato: l’anestesia, infatti, è stato l’altro elemento che ha profondamente cambiato la chirurgia.

Con il contrasto al dolore, il chirurgo poté lavorare con il paziente sedato, e senza la necessaria rapidità che era richiesta fino a quel momento, con molta maggiore conoscenza di quello che poteva trovare, e con armi adeguate per combattere le possibili complicanze.