Gino Aldi Mai – Il Filantropo Mancianese e il suo lascito alla Comunità

Questo blog nasce anche per valorizzare come le comunità hanno costruito intorno agli ospedali una identità molto forte: ci hanno scritto Chiara Zella, Elisa Bellumori e Anthony Fedeli per raccontare la storia dell’ospedale di Manciano, nato proprio grazie alla figura di Gino Aldi Mai, un filantropo che ha lasciato un segno fortissimo nel suo paese.

A Manciano (Grosseto), la storia dell’assistenza ospedaliera ha origini molto antiche; già dal 1572 è segnalata la presenza di uno “Spedale”, ossia un ospizio con la funzione di assicurare cure ai malati poveri e alloggiare i pellegrini.
 Nel corso del XIX secolo, come conseguenza delle varie prese di coscienza della popolazione sulla propria realtà, riscontrata in tutta la Maremma, sorsero enti e associazioni di carattere assistenziale e ricreativo, come la “Società Operaia di Mutuo Soccorso e la Compagnia del Santissimo Sacramento e Misericordia”.

La genesi del nuovo Ospedale fu lunga e complessa. Il Comune ed altre istituzioni del tempo, riconoscevano l’esigenza di doversi dotare a proprio carico di un’apposita struttura ospedaliera al passo con i tempi, malgrado la mancanza di fondi.

Giuseppe Gino Aldi Mai

La Figura di Gino Aldi Mai
In risposta a ciò, la realizzazione della nuova struttura sanitaria, fu possibile grazie all’intervento risolutivo dell’Onorevole Giuseppe Gino Aldi Mai (1877-1940), importante figura del regime fascista, avvocato e uomo politico, sindaco e podestà di Manciano, tra il 1926 e il 1938.

Premiato con la Croce al merito di guerra, ricoprì per tre legislature consecutive la carica di Segretario della Camera e nel 1934 fu eletto Senatore. Oltre all’ospedale, fra le sue opere più importanti va ricordato l’Acquedotto del 1913 da Santa Fiora a Manciano, la proposta di costruzione delle linee ferroviarie Orvieto-Orbetello, Massa Marittima-Siena e quella dell’Amiata e fu uno dei maggiori sostenitori e promotori della bonifica integrale della Maremma tra il 1925 e il 1928, tanto che arrivò a sollecitare più volte Mussolini.
Il 7 Novembre 1926, alle ore 10.00, venne inaugurato il nuovo “Ospedale Aldi Mai”, così intitolato per volere del finanziatore del progetto, che in una lettera incisa a caratteri d’oro sul nascente edificio (oggi perduta), asseriva:

“Ad onorare i miei morti, ai quali voglio sia dedicato, ho deciso, cessata la guerra, di costruire lo Spedale a mie spese”

Foto storica dell’inaugurazione dell’ “Ospedale Aldi Mai”

Il Giorno dell’Inaugurazione
L’evento ebbe grande risonanza in tutta la Regione e portò personalità di spicco a parteciparvi.
 Alle ore 10.30, un corteo composto da più di 5000 persone sfilò per le vie di Manciano, sino a raggiungere il nuovo Ospedale. Mentre la popolazione si radunava acclamante nella piazza adiacente, le Autorità prendevano posto, come testimoniato da numerose foto storiche, sui due terrazzini, al tempo parte della facciata principale. Rispettivamente le “Signore di Manciano”, la Signorina Ciacci e le due Signore Marsalia e Maddalena Ciacci, nipote, madre e moglie dell’Onorevole Aldi Mai. Dall’altra, oltre a quest’ultimo erano presenti anche il notaio Rossi, che lesse l’atto di donazione, il Monsignor Vescovo Matteoni venuto a benedire la struttura, il sindaco del paese Rosatelli, Guido Meloni e altre personalità del tempo.
La cerimonia si concluse in tarda sera, ma l’importanza di tale evento fu talmente sentita che la Congregazione di Carità di Manciano, un anno dopo, volle commemorarla con la pubblicazione di una locandina.

Con l’inaugurazione dell’Ospedale Aldi Mai, Manciano compiva un passo determinante sul piano dell’ammodernamento dei servizi sanitari; ancora oggi la figura del suo fondatore si conserva nella memoria storica di questo paese.

Bibliografia
Manciano – Guida al Centro Storico; Massimo Cardosa, Laurum Editrice; 
Manciano – Itinerario storioco-artistico; Lilio Niccolai, Comune di Manciano; 
La Misericordia di Manciano – Quattro secoli di storia; Lilio Niccolai, Comune di Manciano; 
Documentazione varia (lettere, verbali, locandine) presso l’Archivio Comunale di Manciano; 
Grossetopedia Wiki, https://grossetopedia.fandom.com/it/wiki/Gino_Aldi_Mai 
Fonti Giornalistiche 
Giornale d’Italia, 3 Novembre 1926; 
Giornale d’Italia, 7 Novembre 1926; 
Il Telegrafo, 7 Novembre 1926.

Sant’Antonio e la sua Festa all’Ospedale di Alessandria

L’Ospedale di Alessandria, dedicato ai Santi Antonio e Biagio, promuove una intera settimana di appuntamenti per festeggiare Sant’Antonio, il 17 gennaio, (il programma completo dell’iniziativa è disponibile qui) e rendere la festa ancora più inclusiva e partecipata, nonché di approfondimento costruttivo e di perno attorno al quale ruotano le molteplici attività dell’Ospedale: la festa di Sant’Antonio, infatti, costituisce un appuntamento ormai divenuto tradizionale e molto sentito dall’intera città di Alessandria.

Le celebrazioni si aprono con un pomeriggio dedicato alle Medical Humanities per riflettere sull’integrazione tra la dimensione tecnica dell’approccio medico tradizionale e la dimensione relazionale fornita dalle discipline umanistiche, da sempre motivo di contemplazione contro le malattie per i ricoverati.

Ampio spazio è dato al patrimonio “umano”: ai professionisti che vi operano con la valorizzazione dei progetti di ricerca; ai dipendenti in pensione, per ringraziarli dell’impegno; ai benefattori, che nel corso dei secoli e ancora oggi hanno rappresentato e continuano ad essere un valore aggiunto nella crescita dell’Ospedale.  Ospedale che nella sua doppia dedica, risalente al 1566-1567, sembra già contenere in se’ il suo destino e la sua storia che ancora oggi si sta sviluppando in piena coerenza con l’originario legame tra il luogo di cura e i bisogni di salute della comunità, già afflitta da quelle patologie che verranno poi indicate come “ambientali”.

Questa significativa intitolazione, infatti, rispondeva alla precisa volontà di porre l’ospedale e quindi la città intera dei sofferenti sotto la protezione dei due principali santi medievali della pietà.

Nello specifico si tramanda che i fedeli accorressero numerosi per ottenere guarigioni da Sant’Antonio, l’eremita che veniva considerato il difensore dei poveri ma anche il protettore da tutti i tipi di contagio come l’erpes zoster, ovvero quel fuoco di Sant’Antonio che si ritrova simbolicamente nella sua iconografia.

A San Biagio,invece, venne attribuita la capacità di difendere dal mal di gola dopo aver salvato un bambino che stava per morire soffocato a causa di una lisca di pesce.

Entrambi i santi quindi incarnano la protezione dai mali del corpo e dello spirito, rappresentando i maestri di carità che, grazie alla loro salda fede e alta moralità, riescono a sopportare il dolore e le privazioni. Concetti davvero importanti e sentiti dagli uomini del Medioevo ai quali le malattie contagiose, le carestie e le miserie apparivano come prove imposte da Dio o addirittura punizioni.

Ripercorriamo una prima parte della storia di questo Ospedale, che affonda le sue radici con la storia della Città di Alessandria, fin dall’anno 1168 in cui convenzionalmente si attribuisce la nascita della città di Alessandria. In realtà la dignità di città, Alessandria poté acquisirla dieci anni dopo, nel 1178, con la costruzione della Cattedrale e delle mura di cinta. Prima di quella data, infatti, era un agglomerato di case di terra con il tetto di paglia, affacciate a strade dove scorrevano a cielo aperto acqua piovana e scarichi, che, raccolti un un canale venivano convogliati nel Tanaro.
Per circa un secolo, a partire dal 1200, Alessandria fu attraversata da una serie di sanguinose battaglie tra guelfi e ghibellini, fino a perdere il suo stato di comune libero e consegnarsi nel 1316 al Ducato di Milano, dominio che venne mantenuto fino al primi anni del 1700.
Pur essendo parte di un grande stato, Alessandria non ebbe gli stessi benefici né economici né socio-culturali come la vicina Pavia, dove i Visconti avevano il loro castello e fondarono una delle prime università italiane. Alessandria era ritenuta importante per la difesa del Ducato: venne quindi fortificata con cura, ma poca attenzione venne data ad altri aspetti, in primis alla costruzione di un grande e importante ospedale, come quello di Pavia.

Ubicazione di alcune “Chiese di Spedale” di Alessandria nel 1500. (Da Storia dell’Ospedale dei santi Antonio e Biagio di Alessandria di G. Maconi)

In linea di massima, gli ospedali della città erano chiamati con il nome della chiesa a cui erano annessi. Erano chiamate “chiese di ospedale” quelle strutture che avevano annesso un ospedale, normalmente di piccole dimensioni. Erano adiacenti la chiesa stessa, ed erano luoghi dedicati sia all’assistenza di persone malate che pellegrini. Si trattava di edifici di piccole dimensioni, costituiti da tre o quattro locali, capaci di ospitare al massimo una decina di persone; svolgevano funzioni di assistenza più che di cura, infatti erano pochi quelli dotati di personale medico.

La popolazione, va precisato, era piuttosto reticente al ricovero ospedaliero come lo intendiamo oggi e si affidava ai rimedi della “medicina popolare”. Chi poteva pagava un medico per la cura a domicilio, evitando se possibile il ricovero in stanze buie, spesso sporche, con trattamenti eseguiti da personale non adeguatamente preparato.

Ad Alessandria erano undici gli ospedali annessi alle Chiese, la cui presenza è testimoniata da documenti storici.
Il più antico era quello di sant’Antonio, nel quartiere di Bergoglio, fondato nel 1295 con i fondi di Giannino Guasco. Dopo la sua costruzione, l’ospedale passò ai canonici di Sant’Antonio, che si occupavano in particolare dell’assistenza agli ammalati del “fuoco sacro” o “fuoco di sant’Antonio”. Nel 1626 l’ospedale e la chiesa vennero uniti alla chiesa di san Marco (l’attuale Duomo).
Non si conosce invece la data precisa di fondazione dell’ospedale di San Giovanni in Bergoglio, chiamato anche “ospitale de porta Alexii” perchè si trovava vicino alla porta collocata sulla strada per Asti.
Anche dell’ospedale di san Cristoforo in Bergoglio non si conosce l’esatta fondazione, ma pare sia anteriore al 1350 in quanto il nome figura nell’elenco delle chiese compilate proprio quell’anno. I beni di questa chiesa e dell’ospedale furono donati da papa Pio V all’ospedale di sant’Antonio in Rovereto nel 1566 per completarne il finanziamento. Pare che questo ospedale fosse riservato alle sole donne.
L’ospedale di san Giacomo di Altopascio in Marengo fu terminato nel 1355 dopo un atto di fondazione datato 1350 e redatto proprio nella cittadina toscana, sede di tutti gli ospedali con lo stesso nome e sparsi per l’Europa, grazie a Guglielmo Gamberini, nobile alessandrino con parenti stretti a Lucca. Motivo per cui la famiglia Gamberini per diversi secoli nominò il Rettore dell’ospedale, scegliendo spesso tra la propria famiglia. Era collocato nel quartiere Marengo, affacciato su corso Lamarmora e si estendeva su via Ghilini; la presenza di medici lascia immaginare che fosse un ospedale inteso in senso moderno. Quando nel 1777 si estingue il ramo alessandrino della famiglia Gamberini, l’ospedale viene trasformato in “ospedale per pazzerelli”, essendo stato costruito nel frattempo l’Ospedal Grande dei Santi Antonio e Biagio.
Sempre nel quartiere di Marengo, nell’attuale via Parma, era collocato l’ospedale di San Bartolomeo, fondato nel 1389 da Fiorino Merlani, la cui famiglia mantenne il patronato pare fino al 1700. Sembra fosse il più antico esempio di ospedale organizzato in modo moderno, sebbene con il tempo, probabilmente a causa della cattiva amministrazione, si passò dai quattordici posti letto iniziali, ad otto, come si legge nei documenti delle visite pastorali del 1698 e del 1709, fino alla definitiva chiusura nel 1773 per ordine sovrano.
L’ospedale di san Giacomo venne invece trasferito da Asti ad Alessandria quando nel 1575 il re di Spagna Filippo II lascio la città al Ducato di Savoia. Sistemato nel quartiere Gamondio annesso ad alcune case presso il convento degli Umiliati, probabilmente in via Trotti, nel tratto che va da via Legnano a via Bergamo. Si trattava di un ospedale militare, trasferito poi nel 1792 in Cittadella, con la costruzione dell’ospedale ivi incluso.
L’ospedale di san Cristoforo era collocato in zona Gamondio, probabilmente verso piazza Marconi; il vescovo Bertolino nel 1408 lasciò i beni di questo ospedale e alla chiesa annessa ai frati agostiniani di San Giacomo della Vittoria, che ne entrarono in possesso solo nel 1428 dopo l’approvazione papale e una volta finita l’opera di ospitalità.
L’ospedale Santissima Trinità veniva anche chiamato dei santi Giacomo e Filippo degli Spandonari perché si trovava vicino alla chiesa che ne portava il nome, pur non essendone annesso. Costruito da due sole camere, era riservato ai soli pellegrini di passaggio. A metà seicento, dopo il lascito di un sacerdote, Michele Antonio Milhauser, l’ospedale ebbe una migliore fortuna. Verso la fine del settecento la chiesa, che si trovava in cattive condizioni, venne edificata in altro luogo e l’ospedale con il suo patrimonio passò poi all’ospedale dei pazzerelli.
L’ospedale di San Biagio era collocato fra via Verona e Via Milano, nel quartiere Rovereto; il documento più antico ad esso riferito è un atto notarile del 1353. Dagli atti delle visite pastorali pare che l’ospedale avesse dieci letti solo per uomini. Tra il 1565 e il 1567 questo ospedale venne annesso, come detto, a quello di san’Antonio dal punto di vista amministrativo, pur mantenendo la propria sede.
Il documento più antico relativo all’ospedale di Sant’Antonio è invece del 1524 in cui Giacomo Claro, nobile alessandrino, lo rendeva erede di tutti i suoi beni. Collocato in via Treviso, all’interno del quartiere rovereto, costituiva la parte più antica dello Spedal Grande dei Santi Antonio e Biagio.

Esposizione fotografica « Hospitalia » di Elena Franco in Belgio

Cura e Comunità ha sempre posto grande attenzione ai luoghi dell’assistenza, anche grazie alla sensibilità artistica di Elena Franco, che da anni ricerca e fotografa la memoria degli antichi ospedali in Europa.

Dal prossimo 8 settembre si aggiunge una ulteriore e preziosa mostra che qualifica il lavoro dell’artista: il Museo dell’Ospedale di Notre-Dame à la Rose a Lessines ospiterà una esposizione «en plein air» presso il sito del Museo dell’Ospedale di Notre-Dame à la Rose, dall’8 settembre al 25 novembre 2018, con una guida a disposizione per il visitatore. L’inaugurazione è fissata per il 7 settembre 2018 alle ore 19.00. 

L’opera di Elena Franco costituisce un omaggio alla storia dell’accoglienza e della cura, comune a livello europeo, e dimostra sino a che punto essa sia, soprattutto, profondamente umana.

L’artista ha recentemente pubblicato il volume “Hospitalia” (ARTEMA 2017, a cura di Tiziana Bonomo), che raccoglie in modo originale e poetico gran parte delle sue opere e che conduce il lettore attraverso una storia europea sconosciuta ai più. Le sue fotografie donano voce alla storia architettonica e sociale degli antichi luoghi di accoglienza e di cura, costruiti a partire dal Medioevo nei principali centri europei. Sovente abbandonati, sono spesso oggetto di riuso a partire dal XX secolo.

L’antico Hôtel-Dieu di Lessines (Belgio) ne è uno dei migliori esempi: fondato a metà del XIII secolo per ospitare una comunità religiosa oltre a una trentina di indigenti, attualmente ospita un museo senza eguali, dedicato alla storia della salute e della medicina, la cui ricchezza – insieme alla coerenza tra patrimonio artistico, scientifico e architettonico – valgono il viaggio.

Riferimenti: 

Musée de l’Hôpital – Place Alix de Rosoit – 7860 Lessines

Tél : +32 (0)68 33 24 03 – Fax : +32 (0)68 26 86 57

info@notredamealarose.com – https://www.notredamealarose.be

 

Elena Franco (Torino, 1973) è architetto e fotografa. Collabora con Il Giornale dell’Architettura ed è direttore artistico della Fondazione Arte Nova. La sua principale ricerca fotografica “Hospitalia”, in corso dal 2012, dopo essere stata esposta e presentata in sedi istituzionali a Milano, Napoli, Vercelli, Losanna, Venezia, Firenze, Arles, accompagnata da convegni e workshop ispirati dal suo lavoro, è ora un libro, a cura di Tiziana Bonomo (ARTEMA 2017). Nel 2015, dopo aver partecipato alla proiezione pubblica dei migliori portfolio dell’anno al Musée Elysée di Losanna, con la serie “Hospitalia”, ha vinto a Venezia la prima edizione del “Premio Mediterraneo” e una selezione di opere è entrata a far parte dell’Archivio del Fondo Malerba per la Fotografia, mentre nel 2016 è stata selezionata quale finalista per il Combat Prize al Museo G. Fattori di Livorno. È stata tra gli autori selezionati per il Premio Streamers 2016. Parte del progetto “Hospitalia” è entrato a far parte dell’Archivio del Fondo Malerba per la Fotografia e di collezioni private in Italia e all’estero. Le sue opere sono trattate da Photo & Contemporary a Torino e da Studio Cenacchi Arte Contemporanea a Bologna.

La Ca’ Granda: l’Ospedale Maggiore di Milano

L’attività di assistenza è strettamente collegata al proprio territorio: questo blog nasce per valorizzare come le comunità hanno costruito intorno agli ospedali una identità molto forte. Un esempio è testimoniato dall’Ospedale Maggiore di Milano: ci racconta la sua storia il dottor Paolo Galimberti, responsabile della Struttura Beni Culturali Fondazione IRCCS Ca’ Granda – Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.

Dottor Galimberti, quando nasce questa istituzione?
L’Ospedale Maggiore viene fondato nel 1456 da Francesco Sforza e da Bianca Maria Visconti, signori di Milano, portando a compimento la riorganizzazione degli antichi hospitalia voluta dall’arcivescovo Rampini nel 1448. Anche a Milano infatti, come in tutto il centro-nord Italia, alla metà del Quattrocento si assiste a un processo di riforma, volta a concentrare in una sola amministrazione civica tutte le istituzioni ospedaliere sorte nei secoli precedenti, creando degli ospedali “maggiori”, con autorità amministrativa e bacino d’utenza esteso ai confini della Diocesi. Analogamente ad altre città, per la nuova struttura viene costruito anche un nuovo edificio, appositamente concepito per garantire le ottimali condizioni igieniche e funzionali che facilitassero la cura, il cui progetto si attribuisce ad Antonio Averlino “il Filarete”. La costruzione dell’edificio si prolunga fino al 1805, concludendosi con un fabbricato di 300 metri di lunghezza per 100 di larghezza: la “magna domus hospitalis”, popolarmente detta la “Ca’ Granda”.
A questo si aggiungeranno nel tempo il Lazzaretto, reso celebre dai “Promessi sposi” di Manzoni, la chiesa di San Michele ai nuovi sepolcri (da tutti conosciuta come “la rotonda” di via Besana), la Pia casa degli esposti e delle partorienti di Santa Caterina alla Ruota, il manicomio della Senavra. Dalla fine dell’Ottocento sorgono poi i padiglioni del Policlinico, mentre le funzioni sugli esposti e sui malati mentali vengono cedute alla Provincia; nel Novecento si contribuisce alla nascita degli Istituti Clinici di Perfezionamento, e vengono costruiti gli ospedali di Niguarda, di Sesto San Giovanni, e San Carlo Borromeo.

Ci può raccontare  la sua storia?

Ripercorrere le vicende dell’Ospedale significa ricostruire la storia di Milano e della Lombardia degli ultimi 1000 anni.

Non solo per la medicina, l’assistenza, l’igiene, ma potendo disporre di un osservatorio privilegiato per la storia dell’architettura, dell’urbanistica, dell’arte, dell’economia, dell’agricoltura, dell’ingegneria idraulica, della moda e del costume, solo per fare alcuni esempi.

Dottor Galimberti, come possiamo esprimere il legame tra la città e i suoi benefattori?
Di fatto la storia dell’ospedale è la storia della società che lo ha prodotto e sostenuto nei secoli: gli amministratori scelti tra le élites cittadine, i tecnici che hanno lavorato per esso, che siano medici infermieri o architetti, i fittabili del patrimonio fondiario, i fornitori, e infine gli assistiti, gli infermi, i bambini affidati all’istituzione della quale divenivano figli.
L’ospedale, fin dall’età medievale, ha erogato assistenza gratuita ai bisognosi e le risorse per far fronte a infiniti bisogni sono sempre state fornite dalla generosità cittadina. Il contributo dei benefattori era ben chiaro allo Sforza che, nell’epigrafe apposta alla facciata del nosocomio, riconosce che la fondazione si deve, oltre che a lui, alla moglie Bianca Maria “una cum Mediolanensi populo”, insieme al popolo milanese. Effettivamente gli atti di generosità, attestati in archivio fin dall’età medievale, si manifestano in donazioni, testamenti e legati, e vanno da modeste elargizioni al trasferimento di grandi capitali e proprietà.
Per ricordare i più illustri e generosi sostenitori, per gratificarli e per incentivarne l’emulazione, l’ospedale ne commissiona a proprie spese il ritratto pittorico. La tradizione, cominciata nel 1602 e proseguita fino ad oggi, ha permesso di accumulare oltre 900 dipinti, che insieme descrivono non solo quattrocento anni di arte lombarda, ma la storia della società, del costume, delle modalità di auto-rappresentazione dei ceti elevati. Visto il successo in termini di raccolta fondi, l’usanza è stata rapidamente imitata da tutti gli enti assistenziali e sanitari lombardi, ma certamente quella dell’ospedale Maggiore di Milano resta ineguagliata per ampiezza, importanza degli artisti, rilevanza dei benefattori, continuità di esecuzione.
Un altro aspetto rilevante, e che ben rappresenta il legame anche affettivo della città col suo ospedale, è l’attività di volontariato. Già nel Seicento sono attestate confraternite o associazioni che svolgono un libero servizio a favore degli ammalati; nell’Ottocento sorgono la Pia Unione di Beneficenza e Carità (le “dame del biscottino”) e la Commissione Visitatori e Visitatrici, tuttora operante. Oggi le associazioni di volontariato o le fondazioni di sostegno alla ricerca e all’attività sanitaria operanti in ospedale sono più di settanta.