Gli ospedali medievali: la pietas e l’arte per il malato

Vivere nel Medioevo voleva dire vivere in una società molto dura, ma l’aspetto che livellava ricchi e poveri, nobili e miserabili era l’assenza di cure mediche. Di fronte alla malattia, tutti erano uguali perché non esistevano farmaci efficaci, né vere terapie.

L’assistenza ospedaliera nel Medioevo basava la sua organizzazione sul sentimento cristiano dell’aiuto materiale e spirituale al prossimo bisognoso, concetto che sopravvisse fino al 18° secolo, quando finì per prevalere la funzione di luogo di cura.  Nonostante questo, nel XIV e XV secolo, nelle principali città sorsero nuovi ospedali che costituirono veri e propri capolavori d’arte. Luogo innanzitutto di ospitalità, era accoglienza anche per i malati, ma non in quanto tali, bensì perché sovente era lo stato di malattia a determinare quello di necessità.

Esemplari l’Ospedale Santa Maria della Scala a Siena, oppure Santa Maria Nuova a Firenze. Va tuttavia fatto presente che questi ospedali, sebbene ricchi di arti con sculture, marmi, pitture che li rendevano preziosi dal punto di vista artistico, non avevano sempre i requisiti tecnici ritenuti indispensabili per un ospedale.

Il grande complesso del Santa Maria della Scala, situato nel cuore di Siena, di fronte alla cattedrale, costituì uno dei primi esempi europei di ricovero ed ospedale, con una propria organizzazione autonoma e articolata per accogliere i pellegrini e sostenere i poveri ed i fanciulli abbandonati. Il Santa Maria della Scala conserva straordinariamente integre le testimonianze di mille anni di storia, restituendo un percorso che, dall’età etrusca all’età romana, dal Medioevo al Rinascimento, giunge interrotto sino a noi.

A questo link le collezioni del Complesso Museale Santa Maria della Scala, realizzato con Google Arts & Culture, una raccolta online di immagini in alta risoluzione di opere d’arte esposte in vari musei in tutto il mondo, oltre che una visita virtuale delle gallerie in cui esse sono esposte

 

La spiritualità come professione: San Camillo de Lellis

la straordinaria opera di assistenza di Camillo de Lellis

“Quello che costituisce il vertice della propria autorealizzazione umana, a cui si tende con tutte le forze e con esiti precari e instabili, diventa uno stato permanente”. Questo l’incipit di “Sulla terra in punta di piedi” di Sandro Spinsanti, direttore dell’Istituto Giano, che in questo libro affronta la dimensione spirituale della cura.

Spinsanti, nel tracciare un breve excursus legato a vite sotto l’insegna della religione, ricorda come nella storia sono numerosi gli esempi di ‘famiglie religiose’ che uniscono la preghiera all’assistenza. Tra le più note spiccano figure come San Vincenzo de Paoli, don Guanella o Camillo de Lellis.

Quest’ultimo è il fondatore dell’Ordine dei Ministri degli Infermi, insieme ai primi cinque compagni che si erano consacrati alla cura degli infermi, nell’agosto del 1582, i cui primi statuti vennero approvati da papa Sisto V il 18 marzo 1586. La nuova Congregazione con l’approvazione papale ottenne anche l’assenso alla richiesta di portare una croce di panno rosso sopra la veste come segno distintivo dei “ministri degli infermi”.

Camillo de Lellis – la cui vita completa è disponibile a questo link dell’enciclopedia Treccani – maturò la propria decisione nel contatto quotidiano con tali problemi e nell’esercizio della carità al servizio di malati e poveri, raccolti e racchiusi in numero sempre crescente nelle istituzioni ospedaliere. Nei grandi ospedali rinascimentali si andava sempre di più verificando un degrado dell’assistenza, con personale prevalentemente laico, pessime condizioni igieniche che favorivano il diffondersi di epidemie. Da qui l’idea di una Congregazione totalmente dedita alla cura fisica e spirituale degli infermi: cioè “una compagnia d’huomini pii e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor d’Iddio servissero gli infermi con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i lor proprii figliuoli infermi” (Scritti…, p. 52).

L’opera di de Lellis fu rivoluzionaria: da una parte una grande disciplina posta da Camillo nel redigere la contabilità dell’ospedale, che creò la fiducia necessaria per attrarre generose donazioni. Dall’altra un sistema di regole redatte tra la fine del 1584 e l’inizio del 1585: in esse particolare rilievo veniva dato all’obbligo della povertà con l’impegno a non accettare nessuna donazione ereditaria dagli infermi. Le regole non si soffermano tanto, però, sulla regolamentazione della vita religiosa dei confratelli quanto piuttosto sulla descrizione degli “ordini et modi che si hanno da tenere nelli hospitali in servire li poveri infermi” (Scritti…, pp. 67-71). Qui, attraverso una precisa e minuta descrizione dei modi e delle forme del rapporto coi malati, si afferma il principio del servizio agli infermi: come rifare i letti, servire i pasti, fare le pulizie.

“Perché le cure, maneggi delle cose temporali impediscon lo Spirito et charità verso il prossimo”

Il nome di “servi degli infermi” veniva preso alla lettera dal fondatore, per il quale le cure fisiche erano inscindibili dall’opera di conforto spirituale e prendevano un rilievo quasi esclusivo. Camillo fece mettere agli atti della Congregazione del 20 maggio 1599 questa specifica indicazione: “servire negl’hospedali all’infermi nella cura et bisogni corporali, cioè nettargli le lingue, dargli da mangiare, da sciacquare, far letti, et scaldarli, … et fare altre cose simili” (Scritti.., p. 195).

La forza della figura di Camillo, proclamato santo da papa Benedetto XIV nel 1746 e riconosciuto insieme con san Giovanni di Dio, patrono universale dei malati, degli infermieri e degli ospedali, è rappresentata anche dalla abbondante iconografia: un analisi dettagliata è disponibile sul sito dei Camilliani, a questo link.

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Una iconografia piuttosto diffusa in ambito camilliano è la rappresentazione del santo inginocchiato mentre gli angeli in volo gli portano il Crocifisso, ma sono numerose le opere che lo ritraggono con malati: qui una approfondita descrizione dell’opera “San Camillo de Lellis salva gli ammalati dell’Ospedale di San Spirito durante l’inondazione del Tevere del 1598”

Nel dipinto, di grandi dimensioni e di formato rettangolare con sviluppo orizzontale, è raffigurata la scena dell’allagamento della grande corsia dell’ ospedale romano di Santo Spirito in Sassia in cui si assiste alle operazioni di soccorso degli ammalati, condotta da quattro uomini in abito scuro ( di cui due hanno una croce rossa sul petto), appartenenti ad un ordine religioso, aiutati da tre inservienti.

 

Ars Curandi

di Elena Franco

Gli antichi complessi ospedalieri di Beaune in Francia, Lessines in Belgio e Siena in Italia sono accomunati da una storia che ha le proprie radici nel Medioevo e che testimonia come cura e accoglienza siano, da sempre, uno dei pilastri su cui si fonda la civiltà europea. Luoghi di scienza e di pensiero, città nelle città, sono stati centri di innovazione, ma anche di solidarietà, di cui hanno perfezionato i meccanismi.

ospedale di Notre-Dame à la Rose di Lessines in Belgio

L’ospedale di Notre-Dame à la Rose di Lessines in Belgio è stato fondato nel 1242 da Alix de Rosoit, vedova di Arnould IV d’Audenaerde, signore di Lessines e gran balivo di Fiandra, mentre l’Hôtel-Dieu di Beaune è stato fondato nel 1443 da Nicolas Rolin, cancelliere del Duca di Borgogna, e da sua moglie Guigone de Salins. Dell’ospedale senese di Santa Maria della Scala precocissima è la fama: almeno due relazioni, redatte tra fine Trecento e metà Quattrocento e richieste rispettivamente da Gian Galeazzo Visconti nel 1399 e da Francesco Sforza nel 1452, documentano come l’ospedale, ormai compiuto e strutturato nei suoi elementi fondamentali, costituisse un modello da imitare sia dal punto di vista della distribuzione degli spazi che da quello della gestione amministrativa.

Questi luoghi raccontano, dunque, la storia delle donne e degli uomini che, nel corso dei secoli, si sono impegnati per stare accanto ai più fragili, a coloro che soffrono, dando loro un sostegno materiale e spirituale e preoccupandosi della salute dei singoli individui e della collettività.
Sono luoghi in cui l’arte ha sempre avuto un ruolo centrale nel processo di cura, mettendo al centro la persona nella sua interezza di corpo e spirito, e luoghi in cui si è affidata all’arte la narrazione iconografica della cura e della beneficienza.

Esemplare in tal senso è il Polittico del Giudizio finale che Nicolas de Rolin commissionò all’artista di Bruxelles Roger de la Pasture o Rogier Van der Weyden, che mostra sul retro anche gli stessi benefattori fondatori dell’ospedale, ma interessante è anche la ricchissima collezione artistica e di arredi dell’ospedale belga di Notre-Dame à la Rose, caratterizzata dagli stili gotico, Renaissance e barocco. Iconica è, poi, la decorazione del Pellegrinaio maschile del Santa Maria della Scala di Siena – i cui affreschi furono affidati a Domenico di Bartolo, Lorenzo di Pietro e Priamo della Quercia – vero emblema di quel legame tra Cultura e Salute così centrale all’epoca e che necessita, oggi, di una rinnovata attenzione.

Santa Maria della Scala

Questi siti ospedalieri, inoltre, erano centri da cui la cura si estendeva al paesaggio, ai possedimenti agricoli legati alle amministrazioni ospedaliere tramite lasciti dai rappresentanti della società civile di tutte le epoche. Erano i luoghi in cui si decideva la politica agricola dei territori di riferimento, attraverso cui si garantiva un’altra forma di inclusione e assistenza territoriale: grazie al sistema delle grange senesi, attraverso i vigneti ancor oggi caratterizzanti gli Hospices de Beaune. In forma autarchica, come nel caso belga di Lessines, dove sullo stesso sito troviamo ospedale e fattoria.

Quando alla fine del XX secolo, l’evoluzione della scienza medica ha reso impossibile mantenere la funzione ospedaliera in questi edifici, è stata scelta per essi una funzione comunitaria e culturale.
È così che i tre siti sono diventati musei e oggi – sotto forma di archivi della cura, vivi e accessibili a tutti – rendono disponibile un patrimonio straordinario di scienza e umanesimo.

Ho scelto di fotografarli, nel percorso iniziato nel 2012 con il progetto Hospitalia, che si rinnova oggi nel volume dal titolo Ars Curandi, edito da ARTEMA e sostenuto dai tre musei, perché credo sia importante guardarli senza nostalgia e retorica, ma per rispondere al forte bisogno – contemporaneo – di approfondimento di quegli aspetti più legati alle discipline umanistiche in medicina, così come si sta definendo nel campo delle medical humanities.

Spero che rileggere questi luoghi attraverso l’immagine possa contribuire al dibattito sulla cura del futuro, fermamente convinta che, se la guarigione non può essere data per scontata, esista un diritto alla cura – fisica e spirituale – e un’arte della cura che debbano guidarci nelle scelte di evoluzione della nostra società di fronte alle questioni etiche che la medicina ci porrà. E che, allo stesso modo, esista la necessità di allargare il campo della cura al Pianeta, così come da sempre hanno fatto le donne e gli uomini impegnati nella gestione ospedaliera con il sistema dei beni rurali ad essi collegati.

ars curandi

Nelle trecento pagine del volume scorre per immagini il viaggio che ho compiuto in questi tre luoghi e nella loro storia, accompagnata da Bruno François a Beaune, Raphaël Debruyn a Lessines e Debora Barbagli a Siena. A loro si devono i testi che accompagnano le fotografie di ciascun sito e il racconto delle vicende che ne hanno segnato la storia. Quasi un’introduzione che vuol suggerire al lettore un futuro approfondimento “sul campo”, l’inizio di un cammino di conoscenza o una rinnovata riflessione che sappia trovare ispirazione nelle vicende delle comunità che per secoli hanno gestito questi luoghi, per meglio focalizzare sull’improcrastinabile necessità di trasformare la nostra collettività in una società che cura.

Elena Franco
ARS CURANDI

Formato: 20 x 26 cm Pagine: 300
Lingue: francese e italiano Prezzo: 55,00 €

ISBN: 978-88-8052-103-7
ARTEMA - Corso Monte Cucco, 73 - 10141 Torino – Tel. 011 385.36.56 – Fax 011 382.05.49

Storia -breve- dell’Ospedale di Alessandria

L’Ospedale Santi Antonio e Biagio nella sua doppia dedica, risalente al 1566-1567, sembra già contenere in sé il suo destino e la sua storia che ancora oggi si sta sviluppando in piena coerenza con l’originario legame tra il luogo di cura e i bisogni di salute della comunità già afflitta da quelle patologie che verranno poi indicate come “ambientali”.

Questa significativa intitolazione, infatti, rispondeva alla precisa volontà di porre l’ospedale e quindi la città intera dei sofferenti sotto la protezione dei due principali santi medievali della pietà.

Nello specifico si tramanda che i fedeli accorressero numerosi per ottenere guarigioni da Sant’Antonio, l’eremita che veniva considerato il difensore dei poveri ma anche il protettore da tutti i tipi di contagio come l’erpes zoster, ovvero quel fuoco di Sant’Antonio che si ritrova simbolicamente nella sua iconografia. A San Biagio, invece, venne attribuita la capacità di difendere dal mal di gola dopo aver salvato un bambino che stava per morire soffocato a causa di una lisca di pesce. Entrambi i santi quindi incarnano la protezione dai mali del corpo e dello spirito, rappresentando i maestri di carità che, grazie alla loro salda fede e alta moralità, riescono a sopportare il dolore e le privazioni. Concetti davvero importanti e sentiti dagli uomini del Medioevo ai quali le malattie contagiose, le carestie e le miserie apparivano come prove imposte da Dio o addirittura punizioni.

Facendo un passo indietro, l’ospedale di San Biagio e quello di Sant’Antonio costituivano due degli originari undici ospedali della città di Alessandria.

Il primo, già documentato in un atto del 1353, era situato nel quartiere Rovereto e ospitava soltanto ricoverati maschi. L’ospedale di Sant’Antonio, posto nell’attuale via Treviso, viene ricordato in atti di fine Quattrocento: era forse il più importante e in esso venne incorporato proprio l’ospedale di San Biagio attraverso una ristrutturazione che durò circa un quinquennio dal 1566, primo anno di pontificato del papa alessandrino Pio V Ghislieri, al 1570.
Lo Spedal Grande Santi Antonio e Biagio  occupava un intero isolato di circa 6.000 mq ed era dotato di una piccola chiesa presso la quale aveva sede una confraternita laicale istituita nel 1585 “per compiere opere di pietà e misericordia verso i poveri ricoverati”.
Nel 1584 fu poi creata una Congregazione generale che procedeva ogni anno ad eleggere la Congregazione dell’Ospedale, composta da un Priore (di solito un medico del Collegio cittadino) e da quattro deputati o regolatori i cui compiti erano molteplici e interessavano sia il campo amministrativo sia quello sanitario, assistenziale e anche religioso.
Il binomio assistenza-sanità, in cui il primo termine prevale, resta la chiave di volta della storia di questo Spedal Grande a cui è necessario sommare la beneficenza pubblica e privata come mezzo di espiazione di peccati individuali e collettivi attraverso l’elargizione testamentaria di beni e rendite. L’ospedale accolse così negli anni numerose Opere Pie, assumendo gradatamente la fisionomia di argine contro la miseria e di erogatore di aiuti alle persone bisognose, fisionomia che mantenne fino al XX secolo.
Verso la fine del 1700, poi, gli amministratori dello Spedal Grande decisero di costruire un nuovo ospedale.
Venne così dato inizio all’esecuzione del progetto dell’architetto Giuseppe Caselli di Castellazzo Bormida e il 10 giugno 1772 fu posta la prima pietra della nuova struttura, aperta ufficialmente il 2 settembre 1790. Le corsie, a forma di T, occupavano la parte centrale del complesso: quella disposta verticalmente era dedicata alle donne, mentre quella disposta trasversalmente era dedicata agli uomini. Nella parte della struttura rivolta a nord si trovavano la camera mortuaria, i sepolcri, l’alloggio del seppellitore e il teatro anatomico per le autopsie; a nord-est si trovavano invece i locali “di servizio” come il magazzino e la scuderia; più a est la cucina e l’atrio; nel lato a sud la farmacia, la camera del portinaio, la sala delle riunioni, il museo e l’accesso ai piani superiori.
Fra il 1887 e il 1890 venne poi completata la monumentale facciata al centro della quale originariamente si apriva l’ampio atrio su colonne, in rapporto con lo scalone in marmo di accesso al piano superiore, in cui si trovava il Salone di Rappresentanza riccamente decorato e contenente i busti dei benefattori.
Molto frenetica fu l’attività dell’Ospedale a partire dalla fine del 1800 quando cominciarono ad avviarsi numerose discipline tra cui la Pediatria dell’Ospedale Infantile nel 1890, l’ambulatorio di Otorinolaringoiatria nel 1895, il Gabinetto di Clinica Microscopica nel 1896 e la Biblioteca Biomedica nel 1902.
Con gli anni Trenta del 1900, poi, si specializzò sempre di più in discipline anche complesse e all’avanguardia per l’epoca con l’apertura ad
esempio del Gabinetto radiologico (1935) e del Centro provinciale diagnosi e cura dei tumori (1938).
Nel 1935 venne inaugurato anche il Sanatorio antitubercolare “Borsalino”, una struttura che a partire dal 1986 venne destinata alle attività di pneumologia e dopo l’alluvione del 1994 subì un restauro completo divenendo attivo come Centro Riabilitativo, quale è ancora oggi.
Nel dopoguerra si assistette poi a una notevole evoluzione dell’Ospedale e della sua offerta medica grazie allo sviluppo, dal 1947 al 1961, dell’Ambulatorio neurologico, dei reparti di Ortopedia e Traumatologia, Cardiologia, Chirurgia, Urologia, Anestesiologia e Neurologia.

Imago Pietatis: arte in archivio

La rappresentazione della cura e della comunità: Imago Pietatis

La cura e la comunità nei secoli hanno trovato una connessione sempre molto profonda, basti pensare alle “chiese di spedale” come luoghi di assistenza ai pellegrini.
Mentre l’altro elemento, che ha accompagnato la “caritas” introdotta dalla religione cattolica e che trova le proprie radici fin dal tardo Medioevo, è quello della solidarietà che si è realizzato con l’istituzione dei Monti di Pietà. Si tratta di una istituzione di tipo assistenziale, presente in Italia dalla seconda metà del Quattrocento, principalmente grazie all’apostolato di Bernardino da Feltre e dei francescani dell’Ordine dei Minori Osservanti. Il loro scopo era quello di contrastare l’usura, liberando le classi meno abbienti ed erogare prestiti di bassa entità in cambio di un pegno.

I Monti di Pietà derivano la loro denominazione dall’insegna da essi assunta: la Pietà raffigurata nel Cristo deposto dalla Croce.

Elena Franco, fotografa architetto e artista, ha realizzato un’indagine fotografica sull’archivio storico del Monte di Pietà di Bologna, conservato presso la Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna intitolata proprio «Imago Pietatis».

L’archivio custodisce oltre un centinaio di volumi con la raffigurazione del Cristo in Pietà dipinta sul taglio di testa. “Il progetto fotografico – spiega l’artista – è incentrato sull’estetica dell’archivio, per offrirne una lettura originale e creativa che, forte dei riferimenti storici, possa, però, comunicare a un pubblico ampio il messaggio insito nelle Imagines pietatis, attualizzandolo”.

Scorrendo il catalogo disponibile a questo link, è possibile apprezzare alcuni passaggi dell’introduzione di Giusella Finocchiaro, Presidente Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, che ricordano la rilevanza di indagini come questa, finalizzata a “contestualizzare, nel tempo e nello spazio, quei grandi Libri Giornali e Libri Mastri, ma al contempo consentono di apprezzarne le tipicità iconografiche, che ci hanno tramandato quasi involontariamente, raffigurazioni di notevole pregio culturale e di non irrilevante valore artistico”.

L’Archivio Storico del Monte di pietà di Bologna conserva oltre un centinaio di volumi con la raffigurazione dell’Imago Pietatis dipinta sul taglio superiore di ogni tomo.

Il lavoro di Elena Franco ne reinterpreta l’immagine creandone di nuove, significanti, offrendoci così una rilettura originale e contemporanea di questi antichi volumi, che si rinnovano nelle opere create dall’artista.

Immagini che tornano a vivere, in modo differente, e fanno rivivere questo archivio del passato.
Immagini che trasmettono però un grande senso di modernità, nell’iconografia già allora  in uso, come evidenzia il testo di Luca Panaro: “Vedere l’uomo che soffre porta alla solidarietà, l’immagine era così utilizzata per far arrivare il messaggio più velocemente”.

E proprio come evidenzia l’autrice “elemento di interesse per il mio lavoro riguarda il fatto che l’iconografia della Pietà dell’Archivio Storico del Monte di pietà di Bologna rimandi a quella della solidarietà e della cura, nel senso più ampio del termine”.

http://elenafranco.it/home/imago-pietatis/

Archivi
https://www.cittadegliarchivi.it/in-primo-piano/imago-pietatis-archivi-e-arte-contemporanea