Venne così definita da John Forster (1812-1876) la nuova teoria che Franz Joseph Gall formulò e sostenne tra la fine del sec. XVIII e l’inizio del XIX. Secondo la frenologia ogni funzione psichica ha una sua specifica localizzazione nel cervello.
Carta frenologica con tre figure di una testa e schizzi delle teste di uomini famosi
A ciascuna particolare funzione e disfunzione corrisponderebbe un particolare sviluppo o sottosviluppo di questa o quella zona della materia cerebrale che, a sua volta, si riprodurrebbe sulla conformazione esterna della scatola cranica. In tal modo l’esame attento e la misurazione scrupolosa della forma esterna del cranio, delle sue protuberanze e rientranze consentirebbe con scientifica esattezza, secondo Gall ed i suoi seguaci, di tracciare un vero e proprio ritratto psichico dell’individuo, di diagnosticarne propensioni, tendenze, carattere.
Le dottrine di Gall vennero sistemate dal suo discepolo Johann Caspar Spurzheim (1776-1832) ed ebbero una rapidissima diffusione in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, raggiungendo il loro culmine con la pubblicazione del Phrenological Journal curata ad Edimburgo sino al 1847 da Andrew Combe.
Ad onor del vero, Gall non era un ciarlatano e diede anche importanti contributi alla conoscenza anatomo-fisiologica del cervello. In particolare, non era errata-e gli studi più recenti lo hanno confermato- l’intuizione di base, ossia che singole zone del cervello sono in relazione con singole parti del corpo. L’errore fu quello di ritenere che anche qualità astratte come il coraggio, la fermezza, il talento artistico, il misticismo, ecc. avessero una loro particolare localizzazione nel cervello.
Franz Joseph Gall conduce una discussione sulla frenologia con cinque colleghi, tra la sua vasta collezione di teschi e teste modello
Questa sua dottrina, quantunque impostata su ben più vaste conoscenze del cervello, del sistema nervoso e delle facoltà psichiche, si riallaccia all’antica teoria della fisionomia (detta anche fisiognomica e fisionomia) secondo la quale le caratteristiche psichiche di ciascun individuo sarebbero state desumibili dalla sua somiglianza con questo o quell’animale (il coraggioso somigliava al leone, il furbo alla volpe ecc.).
Gall certamente conosceva la tradizione fisiognomistica, rappresentata da numerosissimi trattati medievali in greco e in latino e soprattuto, in epoca moderna, dagli studi di Petrus Camper.
La tavola illustra le presumibili localizzazioni delle funzioni psichiche secondo Gall, fondatore della frenologia. Questa dottrina è assolutamente priva di ogni fondamento scientifico, ma in essa una notevole parte della cultura del tempo, specialmente inglese, credette fermamente, almeno per qualche tempo. Non si deve, tuttavia, credere che Gall fosse semplicemente un esaltato o un ciarlatano. Compì anche studi serissimi e diede contributi notevoli alla conoscenza del sistema nervoso, come, per esempio, la chiara e netta distinzione della sostanza bianca dalla sostanza grigia. (I numeri si riferivano ai passi in cui Gall analizzava i vari «bernoccoli»).
Allo straordinario progresso della chirurgia nella seconda metà dell’Ottocento contribuirono non solo le più accurate conoscenze di anatomia normale e patologica, che permise l’identificazione di entità nosologiche prima ignorata, ma anche, e soprattutto, l’introduzione nella pratica chirurgica dell’anestesia e dell’antisepsi, insieme al miglioramento dello strumentario chirurgico ed all’ideazione di valide pinze emostatiche. Prima di queste scoperte, la situazione nei reparti ospedalieri di chirurgia era tutt’altro che confortante.
Uno degli aspetti più drammatici era rappresentato dal dolore causato dal trauma operatorio, contro il quale ben poco si poteva fare e neppure si prevedevano possibilità di qualsiasi sorte.
Il grande chirurgo Velpau nel 1839, pochi anni prima della scoperta dell’anestesia, scriveva infatti «Pensare di poter evitare il dolore nelle operazioni è un’illusione che non è più possibile nutrire oggi». Il chirurgo cercava di ovviare a questa situazione sopperendovi con la velocità negli interventi, molte volte, però, a scapito della precisione. Il celebre chirurgo francese Ollier, in un discorso «Sulla chirurgia attuale» pronunciato nel 1893, riassunse molto efficacemente la posizione del chirurgo prima dell’introduzione dell’anestesia: «Coloro che conoscono la chirurgia solo attraverso quello che hanno visto e imparato negli ultimi quindici anni faranno fatica ad immaginarsi le difficoltà della nostra professione agli inizi del secolo. Ciò che vedremo adesso fornisce solo un’idea incompleta della situazione del chirurgo di fronte a malati per i quali l’operazione era un terribile supplizio; essi, infatti, riempivano la sala operatoria, fin dal primo colpo di bisturi, di urla furiose e gemiti sofferenti. Non esisteva niente di sicuro per impedire le loro sofferenze, niente di efficace per alleviarle. Bisognava far in fretta e la qualità più apprezzata, e spesso più utile, del chirurgo era la rapidità nel maneggiare il coltello. I chirurghi in quel tempo si preoccupavano di fare, noi oggi dobbiamo solo preoccuparci di far bene.»
Le cose stavano a questo punto, quando nel 1844 il dentista americano H. Welles (1815-1848) adottò per primo l’anestesia generale con protossido di azoto nelle estrazioni dentarie. Fu H. Dairy (1778-1829) a sperimentare su se stesso questa sostanza, scoperta da G. Priefstley nel 1772 e, avendone riportato uno strano stato di euforia, la chiamò «gas esilarante». Il suo impiego come anestetico venne presto abbandonato perché ai primi casi fortunati ne seguirono numerosi altri deludenti. Welles, che per primo aveva adottato nella pratica il protossido di azoto, amareggiato dagli insuccessi ed abbrutito dall’abuso fatto su se stesso di questo gas, si uccise all’età di soli 33 anni.
A man dancing and laughing as a result of the effects of nitrous oxide gas. Engraving.
Nel 1846 un altro dentista americano W. Morton (1819-1868), annunciò ed illustrò un metodo di anestesia generale mediante l’etere solforico, da lui usato nelle estrazioni dentarie. Morton adottò questo anestetico dietro suggerimento del chimico K. Jackson (1805-1880), che aveva scoperto le proprietà narcotizzanti di questo liquido, se usato per inalazione. Poco dopo le prime applicazioni nella pratica odontoiatrica, la narcosi eterea venne introdotta in chirurgia da J.C. Warren (1778-1856), che asportò un tumore del collo senza causare al paziente il minimo dolore.
Questo tipo di narcosi prese subito piede e si diffuse rapidamente ed ampiamente in America ed in Europa. A causa del successo si scatenò una lite fra il chimico Jackson e il dentista Morton, che si contendevano la priorità nella scoperta della narcosi eterea. Durante tale lite Jackson perseguitò il rivale in tutti i modi, fino a ridurlo in miseria e a spingerlo al suicidio.
Prima della fine del 1846 l’anestesia generale eterea era stata adottata in Inghilterra da R. Liston (1794-1847) alla clinica universitaria di Londra, per l’amputazione di una gamba, e subito dopo da G.J. Guthrie (1785-1856) e da Lawrence.
In Italia le prime narcosi eteree furono compiute nel 1847 a Pavia da L. Porta (1800-1875), seguito da A. Riberi (1796-1881) a Torino.
Non era ancora trascorso un anno dalla scoperta della narcosi eterea, che J. Simpson (1811-1870), ostetrico inglese, comunicava, nel novembre 1847, i risultati da lui ottenuti con l’impiego del cloroformio per inalazione in campo ostetrico. Questa sostanza, scoperta contemporaneamente e separatamente nel 1831 dall’americano S. Guthrie (1782-1848), dal francese G. Souberian (1793-1858) e dai tedeschi J. Liebig e Fr. Woehler (1800-1882), essendo più volatile e più gradevole dell’etere, si impose presto in anestesiologia.
Sir J. Y. Simpson and two friends, having tested chloroform on themselves, lying insensible on the floor around a table. Pen and ink drawing.
In Inghilterra l’anestesia con cloroformio fu definitivamente accettata dopo che la regina Vittoria in persona la esperimentò quando partorì il suo settimo figlio, il principe Leopoldo. Da quel momento l’«anestesia della regina» divenne una moda e fu largamente usata in ostetricia: J. Simpson, che per primo l’aveva usata, fu nominato «sir» ed ebbe onori e gloria.
La malattia dei tic e la storia di gilles de la tourette
La sindrome di Tourette è una malattia neuropsichiatrica (colpisce il cervello e il comportamento) caratterizzata dall’emissione, spesso combinata, di rumori e suoni involontari e incontrollati e da movimenti del volto e degli arti denominati tic. Di solito, compare durante l’infanzia e può persistere in età adulta. In molti casi, la sindrome di Tourette è a diffusione famigliare ed è spesso associata al disturbo ossessivo-compulsivo o al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Questo complesso disturbo neuropsichiatrico, in seguito noto come “sindrome di Tourette”, oggi è accettato come entità specifica dei disturbi del movimento.
La sindrome di Tourette prende il nome dal medico francese Georges Gilles de la Tourette che per primo, nel XIX secolo, ne descrisse i disturbi (sintomi) caratteristici. Nel corso dell’Ottocento, infatti, la neurologia si afferma come specialità medica ai confini tra istanze cliniche e neuropatologiche, da un lato, e confronto con gli sviluppi degli studi sperimentali sulla funzione nervosa, dall’altro.
Va ricordato che nel 1817 James Parkinson descrive la paralysisagitans, che porta il suo nome, e nel corso del secolo i neurologi si concentreranno su una serie di disturbi, tra cui l’epilessia, la sclerosi multipla, vari disturbi periferici e del midollo spinale e anche la sindrome di Tourette.
Georges Albert Edouard Brutus Gilles de la Tourette (1857-1904), neurologo francese e allievo di Jean Martin Charcot all’ospedale Salpêtrière di Parigi, ha ottenuto riconoscimento pubblico attraverso la sua descrizione della “Maladie des Tics”.
Gilles iniziò a lavorare sotto Charcot (1825-1893) all’ospedale Salpêtrière, un centro di ricerca intensiva con particolare attenzione all’isteria e all’ipnosi. La Francia ha visto infatti la nascita della neurologia clinica come disciplina separata con Jean Martin Charcot, primo medico ad occupare una cattedra designata di neurologia della storia neuropsichiatrica, nel 1884.
Tourette si interessò all’isteria, ma si dedicò anche a vari altri disturbi neuropsichiatrici e alla neuropatologia. Fu autore di numerosi lavori scientifici su epilessia, nevrastenia e mielite sifilitica. Sebbene abbia dedicato molto tempo alla sua ricerca neuropsichiatrica e alla pubblicazione di articoli su riviste mediche, la sua carriera non vide progressi significativi, nonostante il sostegno illimitato di Charcot. Tourette diede comunque diversi preziosi contributi alla medicina e alla letteratura: i suoi risultati più sostanziali si registrano nello studio dell’isteria, ma fu anche un neuropsichiatra competente con un particolare interesse per la terapia. Era un uomo dinamico e appassionatamente schietto la cui prodigiosa produzione letteraria rifletteva le sue inquiete compulsioni e gli interessi del suo mentore Charcot.
La sua carriera fu assai breve. Nel 1893 visitando una giovane paranoica, convinta di essere stata ipnotizzata, fu colpito da quest’ultima con tre colpi d’arma da fuoco, uno dei quali gli provocò un grave danno cerebrale. A causa di episodi di malinconia e fasi di deliri di grandezza e megalomania, oltre al dramma per l’evento che ebbe grande risonanza pubblica ai tempi, Gilles de la Tourette fu costretto a lasciare il suo incarico ospedaliero nel 1901.
Ricordato, oltre che per l’impegno professionale, per la sua attività letteraria e la personalità passionale e non conformista, trascorse gli ultimi anni della sua vita ricoverato in un ospedale psichiatrico.
In questa cartolina fotografica del 1918, la luce artificiale è utilizzata per curare un bambino.
La moderna scienza della fototerapia è iniziata con il lavoro pionieristico del medico danese-faroese-islandese Neils Ryberg Finsen.
Nato in una delle isole Færøer il 15 dicembre 1860, morto a Copenaghen il 24 settembre 1904, studiò dapprima a Reykjavik (Islanda), poi a Copenaghen dove ebbe la laurea in medicina nel 1890; nel 1893 divenne professore d’anatomia normale all’università e si dedicò quindi esclusivamente agli studi sugli effetti fisiologici della luce. Divenne direttore del Medical Light Institute di Copenaghen, poi Finsen Institute, dove sviluppò questo metodo di trattamento. Nel giro di pochi anni furono fondati 40 Finsen Institutes in Europa e negli Stati Uniti d’America.
Gli interessi scientifici di Finsen furono fortemente influenzati dalle sue condizioni di salute. A partire dal 1883, iniziò a manifestare i sintomi di una malattia che in seguito fu diagnosticata come malattia di Niemann-Pick. Questo disturbo metabolico è caratterizzato da un metabolismo lipidico anormale, con quantità dannose di lipidi che si accumulano negli organi interni. L’ispessimento progressivo si verifica in diverse membrane del fegato, della milza e del cuore. I pazienti presentano problemi cardiaci, debolezza generale e ascite. La prognosi e la durata della vita dipendono dal tipo di malattia.
Finsen osservò che il proprio disturbo era alleviato dalla luce solare: nel 1893, ispirato dall’attenuazione sintomatica che riceveva dall’abbronzatura, iniziò esperimenti a Copenaghen dimostrando che i raggi ultravioletti invisibili stimolavano la crescita o uccidevano i batteri negli organismi inferiori.
Sviluppò una lampada basata su archi elettrici di carbonio (in seguito nota come luce Finsen) che fu utilizzata per la terapia della pelle, ispirato da un articolo di Downes e Bunt, pubblicato nel 1887, in cui si affermava che la luce, in particolare la gamma degli ultravioletti (UV), avrebbe potuto possedere proprietà battericide. Anche un poliziotto di Berlino, Maximilian Mehl, fece alcuni tentativi di terapia della luce, ma i suoi sforzi passarono inosservati alla comunità medica.
Set of apparatus devised by N.R. Finsen for treating lupus Niels Ryberg Finsen
Finsen decise di determinare come somministrare la terapia della luce, concentrandosi principalmente sulla sua efficacia. Credeva che le risposte potessero essere trovate solo combinando il lavoro di laboratorio con esperimenti clinici. Era anche profondamente convinto che gli effetti positivi del trattamento con la luce derivassero dalle sue proprietà battericide.
In ulteriori ricerche, ebbe modo di studiare l’effetto della luce sugli organismi viventi dimostrando che la luce ultravioletta ha un valore terapeutico. Provò inoltre che il lupus vulgaris poteva essere trattato con successo con i raggi UV: una forma di tubercolosi cutanea oggi relativamente rara, che si localizza soprattutto alla faccia e al collo, caratterizzata da lesioni nodulari arrossate che lentamente si estendono e confluiscono, potendo, nel corso di molti anni, portare a gravi distruzioni di tessuto.
The London Hospital, Whitechapel- King Edward VIII and Queen Alexandra in the Finsen Light room. Process print after a drawing by A. Forestier, c.1903.
Come riconoscimento al lavoro sulla cura delle malattie e, in particolare, del trattamento del lupus vulgaris mediante raggi di luce concentrati Finsen ricevette il Premio Nobel per la Medicina nel 1903 “in riconoscimento del suo contributo al trattamento delle malattie, in particolare del lupus vulgaris, con radiazioni luminose concentrate, per cui ha aperto una nuova strada per la scienza medica”. Poco dopo aver ricevuto il premio, morì all’età di 44 anni.
Questa “nuova strada” ha continuato a crescere. Il suo lavoro ha generato un’ampia gamma di ricerche e lo sviluppo di diverse sorgenti di luce artificiale in varie lunghezze d’onda e intensità. Negli anni ’20 era disponibile una grande varietà di lampade a luce. Tutti i pazienti e il personale dovevano indossare occhiali protettivi durante il trattamento con raggi ultravioletti, ma il bambino dell’immagine di copertina non indossa occhiali mentre si sottopone a un trattamento con lampada solare. La terapia della luce in varie forme rimane una modalità significativa per il trattamento di una varietà di condizioni.
Agostino Bassi (1773—1856), nativo di Viairago presso Lodi, laureato in legge all’Università di Pavia, biologo e naturalista appassionato, fu colui che diede la prima dimostrazione che il «contagio» di una malattia infettiva è dovuto alla trasmissione di un germe vivente.
Lo spunto per questa ricerca pervenne al Bassi dall’osservazione che nella pianura padana gli allevamenti primaverili del baco da seta andavano incontro ad una vera strage per il ripetersi di ondate epizootiche provocate dal «mal del segno» (detto anche «mal calcino» o «calcinario»). I bachi colpiti da tale malattia perdevano la motilità e l’appetito e si coprivano di una pellicola pulverulenta biancastra, simile alla calcina (donde il nome della malattia) e poi morivano. Interessato ai problemi agrario—zootecnici, il Bassi affrontò anche questo problema che risolse nel 1826. Comunicò, però, i risultati solo nel 1835 per quanto riguardava la parte tecnica e nel 1836 per quella pratica, giungendo alla conclusione che il «mal del segno è sempre causato da un essere organico vivente, vegetabile, da una pianta del genere delle crittogame: un fungo parassita». Riportò i risultati delle sue ricerche in un libro intitolato «Del mal del segno, calcinaccio o moscardino, malattia che affligge i bachi da seta, e sul modo di liberarne le bigattaje, anche le più infestate».
Quindi il Bassi non si limitò a scoprire l’agente di questa malattia, ma si preoccupò anche di trovare il metodo per prevenirla e combatterla. Fu questo l’aspetto della scoperta che in un primo tempo interessò maggiormente per le applicazioni pratiche che implicava, mentre il principio fondamentale, che rivoluzionò la biologia, non fu, salvo rare eccezioni (Schönlein e Henle), subito riconosciuto nella sua reale e profonda importanza.
Il tedesco Johann Lukas Schönlein (1793—1864), professore di clinica medica dell’Università di Wiirzburg, stimolato dalla scoperta del Bassi, pensò che anche nell’uomo potesse verificarsi quanto era stato osservato nei bachi da seta. Studiò a lungo la tigna favosa e scoprì che era provocata da un fungo parassita, un ifomicete (1839), chiamato in seguito achorion Schönlein.
Nel 1840 il tedesco Giacobbe Henle (1809—1885) scrisse un libro sui miasmi e sui contagi, in cui sostenne, ma solo attraverso una logica stringente e non attraverso l’esperimento, che la materia contagiosa delle malattie epidemiche doveva essere costituita da esseri viventi simili a quelli scoperti da Bassi e Schönlein. Il lavoro di Henle era indubbiamente geniale, ma essendo soltanto speculativo e non sperimentale, non venne preso in grande considerazione. Dovettero passare circa venticinque anni prima che Pasteur convalidasse sperimentalmente le idee di Henle e circa quarantadue prima che lo facesse Koch.