La ‘sensazione viscerale’ di Van Helmont

Esiste un collegamento tra lo stomaco e le emozioni?

L’idea degli organi digestivi come sede dell’esperienza emotiva non sembra così folle o sciocca. Negli ultimi dieci anni, la ricerca sul microbioma intestinale e sul sistema nervoso enterico indica una relazione dinamica e multidirezionale tra pancia e cervello e gli scienziati stanno ora esaminando con una nuova prospettiva il ruolo della salute intestinale nel benessere sia mentale che fisico. Questo articolo pubblicato dalla Wellcome Library analizza come la “sensazione viscerale” ipotizzata da Van Helmont potrebbe essere una realtà medica.

Jan Baptista Van Helmont (1580-1644), istruito a Lovanio, non riuscì a decidere quale scienza perseguire professionalmente, scegliendo infine di diventare un medico, ma continuando a sperimentare in altri campi: è generalmente considerato il padre della chimica pneumatica e fu il primo a scoprire che esistono gas distinti dall’aria atmosferica. È stato un riferimento della direzione iatrochimica e paracelsiana: la sua pubblicazione Ortus medicinae (1648) costituisce una delle ultime grandi sintesi medico-filosofiche prima della presunta frattura cartesiana e sostiene che la localizzazione dell’“anima sensitiva” non sia affatto un’ipotesi peregrina.

«la penso come la gente comune che, quando vuole riferirsi al principio vitale o alla sede dell’anima, tutte le volte che si è incalzati dalle angustie, siano esse le ansie che derivano dalla vita e dal corpo o le afflizioni mentali, indica con la mano l’orifizio dello stomaco»

A suo avviso, la vita corporea sarebbe regolata da un duumvirato stomaco-milza – a cui ovviamente, nella donna, si aggiunge l’utero. Da esso dipende il controllo del ritmo sonno-veglia, la produzione dei sogni, l’istinto della fame e della sete, l’angoscia, la tristezza e la gioia.

Ed è una motivazione immediata, quasi di buon senso che, almeno a livello comunicativo, lo porta a sostenere questa teoria che sebbene non abbia alcun collegamento con la ricerca scientifica moderna, ricorda che ogni persona ha una relazione intuitiva con il proprio corpo che può essere difficile da esprimere e ancora più difficile da trasmettere agli altri.

È l’antico ‘ubi dolor, ibi digitus’ pricipio empirico della localizzazione, espresso da van Helmont in sintonia con l’antintellettualismo peculiare della sua cultura: anche quando i nostri sentimenti viscerali sembrano essere in contrasto con la conoscenza dei nostri giorni, potrebbero essere in grado di dirci qualcosa sul nostro corpo che è fondamentalmente vero.

Una vecchia epidemia: la peste del 1630 raccontata nelle carte d’archivio di Alessandria

Giallo, arancione e rosso con la pandemia sono diventati i simboli del grado di libertà degli individui. Un grado di intensità di azione misurato dalla scienza sulla base delle diffusione del contagio. Misure contenitive che erano giù utilizzate nei secoli passati, come si evince ad esempio da una recente analisi ed esposizione documentale effettuata dall’Archivio di Stato di Alessandria.

Nel 1630 Alessandria, città appartenente allo Stato di Milano e quindi parte dei domini spagnoli, contava circa 10.000-12.000 abitanti entro le mura, intorno a 3.000 nei sobborghi e un numero variabile di militari (da 1.000 a 6.000) che, coinvolti nella guerra di successione di Mantova e del Monferrato, alloggiavano ad Alessandria, importante presidio spagnolo alle spalle del fronte.
La peste fu portata in Italia dai lanzichenecchi, mercenari tedeschi arruolati dal Sacro Romano Impero alleato di Ferrante II Gonzaga, della Spagna — che controllava il Ducato di Milano – e del Ducato di Savoia contro Carlo I di Gonzaga-Nevers, la Francia e la Repubblica di Venezia nella guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631)
Tutta la Lombardia fu pesantemente colpita e in particolare Milano, dove i morti furono oltre 140.000.

Secondo gli Annali del Ghilini – storico alessandrino – i primi casi di “peste manzoniana” ad Alessandria furono registrati il 23 giugno 1630, ma la città era già stata duramente provata da altri quattro casi di pestilenza, avvenuti a partire dal 1523. Data che torva conferma nei documenti d’archivio: in una lettera dell’8 luglio successivo, l’oratore Amolfi, ritornato precipitosamente da una Milano in preda al contagio, descrive anche per Alessandria una situazione ormai drammatica.

Sempre il Ghilini racconta che Alessandria in meno di quattro mesi perse 4.000 persone tra civili e forestieri, già sfiniti da precedenti epidemie. Solo nell’inverno del 1630, grazie all’abbassamento delle temperature, la pandemia iniziò a calare, ma una seconda ondata fu devastante e si dovette attendere la metà dell’anno successivo perché gradatamente si estinguesse, fino ad arrivare al termine ufficiale nel febbraio del 1633.

Secondo le indicazioni contenute nel volume Oratori vol. 54, c. 222 il 12 settembre 1629 giunge notizia della scoperta della peste a Merate, in Brianza. La principale misura adottata per impedirne la diffusione era quella di arruolare alcuni reparti per mettere al bando il borgo colpito dal contagio. I reparti dovevano essere pagati con i proventi di imposte all’uopo riscosse tra la popolazione; non si doveva badare a spese, in quanto la salute era da «anteporre al tutto».

Secondo i volumi dell’Archivio (ASCAL, III, 23, Ordinanze, c. 69) l’unico sistema per difendere la città dal contagio era presidiarne le porte incaricando cittadini “in arme” di farvi accedere soltanto individui muniti di apposita “bulletta” attestante la provenienza da città libere dalla peste. Se tali cittadini si rifiutavano di prestare servizio erano puniti con il carcere. Infatti, in un documento del 14 agosto 1630, essendo stato segnalato da Bernardo Guasco, capo del quartiere di Borgoglio, che alcuni non si erano presentati a svolgere il servizio di presidio delle porte, la Congregazione ordina che «li signori capi di Milizia possano far dettenere in prigione chiunque ricuserà obedire essendo comandato ad andare di guardia con le armi alle porte per servizio della Sanità ne possa essere rilasciato senza Spezial consesso di detto officiale».

È l’ 8 agosto 1630 quando il Consiglio di Alessandria delibera di isolare la città e di presidiarne le porte, ammettendo l’ingresso solo a chi è munito di “bolletta”: «sentita la sudeta proposta di essere di parere che per preservarsi al iminente pericolo di contaggio che tuttavia pare vada acquistando forza nei luoghi circonvicini si debbano usare diligenze straordinarie et in particolare che si custodiscano le porte con esattissima diligenza con assistenza di due gentilhuomini o persone honorate per ciascuna porta et d’un religioso poiché già molti conventi de padri di questa Città si sono essibiti far la sua parte, et più perché vi bisognano persone che aprino li rastelli e li serrino, et che piglino le bolette che si comandi sei persone ordinarie per ogni quartiere al giorno che con le loro armi assistino quota di loro per ciascuna porta per oviare a scandali che possino nascere per parte di quelli che vorano intrare. . .». (ASCAL III, 88, Consigli, c. 26-27)

Una zona rossa che rimarrà tale fino al termine ufficiale dell’epidemia, il 5 febbraio 1633 quando una ordinanza del tribunale di Milano dispone le celebrazioni per la fine della pestilenza: ostensione delle reliquie della Croce in Cattedrale e processione per la città il 5 febbraio.

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