Galeno, studioso del naso

Con Galeno ebbe inizio uno studio preciso del naso, dal punto di vista anatomico e fisiologico: divise l’organo in una parte esterna e due cavità interne, separate fra loro dal setto e comunicanti con il cervello. Descrisse il vomere, la cartilagine quadrangolare e la lama bucherellata dell’etmoide che forma il tetto della cavità nasale. Identificò la mucosa nasale con quella della bocca e della faringe e la considerò un prolungamento della dura madre. Dimostrò inoltre gli stretti rapporti esistenti tra il naso e l’orbita attraverso il canale nasolacrimale.

Galeno attribuì tre funzioni al naso: il passaggio dell’aria per la respirazione, il suo riscaldamento e filtraggio; l’escrezione delle mucosità del cervello; la ventilazione del cervello e il passaggio degli odori. Galeno sostenne che la sede dell’odorato non si trova nella mucosa ma nel ventricolo anteriore. Egli identificò la patologia nasale con quella del catarro, che ritenne dovuto ad eccessiva produzione di escrezioni provenienti dal cervello.

E sempre in campo otorinolaringoiatrico, Galeno individuò nella laringe tre parti: la cricoide, la tiroide e l’aretnoide, riunite un un’unica cartilagine. Considerò le corde vocali come un prolungamento della lingua e questa come il “becco” di quel flauto rappresentato dalla laringe. A proposito della formazione della voce, scrisse che “è il suono che si può produrre solo nella laringe, grazie ai suoi muscoli e alle sue cartilagini e la sua acutezza dipende dall’ampiezza della rima laringea”. Osservò che il taglio o il ferimento dei nervi ricorrenti del vago o delle corde vocali provocava disfonia o afonia, così come le ferite del torace, del cervello e del midollo spinale. Notò anche che la presenza di corpi estranei nella laringe provocava la tosse.

La sua terapia era estremamente varia: prescriveva diete, cure termali, medicamenti, emollienti a base di latte, miele, espettoranti, astringenti, salassi. Non parla mai di inalazioni, molto conosciute invece dagli egiziani.

Nell’antica Roma si parlava di cataratta?

L’Oculistica incominciò a diffondersi a Roma verso il I secolo a.C., come viene attestato da un certo numero di stele funerarie in cui sono menzionati i “medici oculari” e i “chirurghi oculari”, inizialmente distinti, poi riuniti in una unica figura.

Il V e il VII libro del “De Medicina” di Celso sono dedicati all’Oculistica e vengono descritte trentasei malattie, tra cui congiuntiviti, ulcere, tumori – è stato Celso ad individuare l’epitelioma delle palpebre – la cataratta e altre patologie. Accanto ad ogni patologia, veniva descritta anche la terapia medica e chirurgica. La forma farmacologica più diffusa era il collirio, che poteva essere solido o liquido. I colliri solidi, più frequenti, si ottenevano mediante l’impasto di più ingredienti, generalmente costituiti da grasso di maiale, miele e cera d’api. Gli elementi chimici ed organici erano sali di zinco, piombo, di mercurio, di arnica. Quando la pasta era ancora molle, il medico imprimeva il suo sigillo, in cui era inciso il nome del collirio, quello del medico e quello della malattia. Al momento dell’uso, il collirio solido veniva diluito a seconda dei casi con acqua, aceto, vino, latte, albume.

Celso descrive alcuni interventi chirurgici, tra cui la cataratta, al pari delle complicazioni postoperatorie. La bleferoplastica, il raschiamento del tracoma e numerose altre. Lo strumentario chirurgico descritto da Celso non risulta molto abbondante: uno specillo per raschiare il tracoma, un ago finissimo per abbassare il cristallino nell’operazione di cataratta, un uncino, un cauterio per distruggere le ciglia, coltelli di piccole dimensioni.

Anche Galeno si è occupato di oculistica, sia dal punto di vista anatomico che fisiologico e terapeutico: affermò che i nervi ottici formano la prima coppia dei nervi cranici. Espose la teoria della visione, secondo la quale il cristallino raccoglie i raggi luminosi che passano attraverso la pupilla e la cornea e li dirige sulla retina e sul nervo ottico, che trasmette la sensazione visiva al cervello.

Dagli inizi del II secolo d.C. l’oculistica ebbe uno sviluppo straordinario in Gallia, fatto questo che viene documentato in alcune sculture e nella scoperta di sigilli oculistici e di sette astucci chirurgici di oculisti rinvenuti nelle loro tombe.

L’Urologia al tempo dei Romani

Nel “De Medicina” Celso dedicò ampio spazio alla patologia dell’apparato urinario, sebbene va sottolineato che accanto a precise nozioni tecniche su alcuni interventi, pose interpretazioni fantasiose sulla sintomatologia di alcune patologie.

La descrizione di Celso del taglio perineale per l’asportazione dei calcoli vescicali è molto precisa, pur limitandone l’indicazione nei ragazzi dai 9 ai 14 anni (età in cui allora la malattia era molto diffusa).
Descrisse in modo corretto il cateterismo uretrale per mezzo di sonde dotate di una curvatura e di fori laterali all’estremità.

Sempre in campo urologico, Areteo di Capodocia (81-138 d.C.) si occupò di delle nefriti, tentandone anche una classificazione. Nel caso di ritenzione urinaria, in cui era impossibile praticare il cateterismo uretrale, consigliava la cistotomia per via perineale.

Un’opera sulle malattie dell’apparato urinario, in cui sono descritte compiutamente ematurie, piurie, ritenzione d’urina, ascessi prostatici e l’operazione della calcolosi vescicale secondo Celso risale al 100 d.C. a cura di Rufo d’Efeso.

Fu invece Eliodoro, intorno al 120-130 d.C. a descrivere per la prima volta i restringimenti dell’uretra, che attribuì a delle “cavernosità” da asportare per via endouretrale.

L’Ostetricia in epoca romana

Ostetricia, ginecologia, urologia, oculistica, otorinolaringoiatria, odontoiatria: tutte specialità chirurgiche che furono oggetto di interesse dei romani.

L’ostetricia, in particolare, costituì un argomento così rilevante da entrare a far parte del corpo normativo, per tutelare donne gravide e puerpere.

Già all’epoca dei re di Roma, Numa Pompilio aveva emanato la “Lex Regia” che stabiliva che il cesareo andava eseguito su una donna non viva, ma subito dopo la sua morte, per salvare il nascituro. La legge Cornelia puniva coloro che proponevano sostanze abortive e qualora la donna fosse morta per le pratiche criminose era prevista la deportazione o la pena capitale.
Nonostante l’aborto fosse punito, erano permesse pratiche antifecondative, descritte in modo minuzioso nei testi dell’epoca: consistevano generalmente nella chiusura dell’utero attraverso sostanze grasse, unguenti, lana impregnata di grasso.
Altre disposizioni consideravano la gestante come sacra, prevedendo severe pene per chi recasse danno morale o materiale.
L’ostetricia e la ginecologia destarono perciò vivo interesse fra i medici dell’epoca, in particolare vi si dedicarono Rufo d’Efeso, Celso, Sorano d’Efeso e Galeno.
Rufo si occupò di anatomia dell’apparato genitale, con una descrizione sommaria dell’utero. Celso non scrisse molto, ma ebbe il merito di comprendere la difficoltà del parto in posizione podalica, che poteva comunque essere realizzato senza far girare il feto.
Nel periodo imperiale, la “lex regia” di Numa Pompilio venne trasformata in “lex cesarea”, sebbene la tradizione che lega Cesare al parto cesareo sia inesatta, in quanto, come ricorda Plutarco, la madre di Cesare era ancora viva quando egli combatteva la guerra gallica.
Fu Plinio a indicare la denominazione “cesarea” in relazione alla nascita di Scipione l’Africano, anche se va sottolineato che Cesone deriva dal verbo latino coedere che significa tagliare.

Sorano d’Efeso, considerato il più grande ostetrico dell’antichità, fu il primo a far progredire l’ostetricia: nella sua opera principale “Delle malattie delle donne” riassunta dal suo allievo Moschione e usata fino al 1800, si rivolge alle levatrici, fornendo consigli di ordine deontologico.


Nell’opera sono tracciati elementi di anatomia e circa la fisiologia dell’apparato genitale femminile, stabilisce che l’utero può essere asportato senza provocare la morte della donna; che il ciclo è fisiologico e intuì che tra le mammelle e l’utero esiste una correlazione.

In riferimento alla generazione, accettò la teoria aristotelica che attribuiva uguali proprietà procreatici al seme maschile e a quello femminile.
Descrisse, nella sezione della distocia, la presentazione podalica, affermò che le primipare partoriscono con difficoltà così come quelle dai fianchi stretti. Consigliò la difesa del perineo durante l’espulsione del feto, praticò la doppia legatura del cordone ombelicale e limitò l’embriotomia.

Nell’opera di Sorano non mancano nozioni di puericultura e pediatria: dalle indicazioni per riconoscere la maturità del neonato, i lavaggi, le unzioni, le regole dell’allattamento, lo svezzamento e la dentizione. Sono inoltre descritte le malattie infantili e le loro cure.

Epoca post galenica: Antillo

Dopo Galeno, nei secoli successivi, fra i chirurghi romani emersero solamente Leonide di Alessandria e Antillo.

Il primo è noto per il grande uso che fece del cauterio: infatti con questo strumento cauterizzava le mammelle cancerose, il retto prolassato e apriva persino il torace negli empiemi.

Antillo, che visse nel III secolo d.C., fu uno dei maggiori chirurghi dell’antichità.

Si interessò del salasso e dette precise indicazioni sulle modalità per praticarlo. Indicò con precisione la tecnica per l’amputazione degli arti e ideò un metodo per l’operazione delle fistole anali simile a quello usato attualmente. Operò la cataratta con l’estrazione del cristallino.
Ma la sua fama maggiore è legata al trattamento degli aneurismi, di cui già distingueva i sacciformi e i fusiformi.

L’intervento da lui ideato per operarli consiste nello scoprire l’aneurisma, nel praticare due legature, una a monte e l’altra a valle dell’aneurisma, nell’incidere l’aneurisma fra le due legature e nello svuotarne il contenuto.