La Medicina Araba

Con il consolidamento del potere nei Califfati d’Oriente, capitali Damasco (660) e poi Bagdad (762), e d’Occidente, con capitale Cordoba in Spagna, i Califfi iniziarono a coltivare le arti, le lettere e le scienze, a seguito di un primo periodo di espansione, avviato da Maometto, caratterizzato da stragi e distruzioni per fanatismo religioso.

Un risveglio culturale avvenuto verso la metà del IX secolo, anche perché gli Arabi in Oriente avevano trovato nelle nuove terre due centri di grande importanza scientifica: Alessandria e Gondishapur, dai quali provennero le radici della medicina araba. Ad Alessandria gli Arabi vennero in contatto con la medicina greco-romana, mentre nella seconda città operarono i cosiddetti “Medici nestoriani”, che si dedicarono alla traduzione in arabo dei testi della medicina greco-romana. Opera altamente meritoria, che servì a conservare un patrimonio altrimenti perduto, sebbene alcune opere subirono modificazioni per difficoltà nell’interpretazione.
Va precisato che con la dizione “medicina araba” va intesa nel senso di medicina di lingua araba, data la varietà etnica dei medici che la crearono.

La medicina araba la si può suddividere in tre grandi periodi: il primo periodo, compreso tra il 750 e il 900, può definirsi di preparazione, ossia quello in cui la medicina tradizionale araba si amalgama gradualmente con quella greco-latina. Nel secondo periodo, compreso tra il 900 e il 1100, molti studiosi si distaccano dai loro Maestri per assumere una personalità sempre più spiccata e indipendente, tutta protesa verso nuove ricerche ed acquisizioni. E’ il periodo di massimo splendore; vi emergono figure come Razi, Avicenna, Albucasis. Infine, il terzo periodo, compreso tra il XII e il XVII secolo, può essere definito della decadenza, contemporanea a quella del Califfato. In esso emersero tuttavia ugualmente figure di primissimo piano, del calibro di Avenzoar, Averroè e Maimonide.

Il primo periodo vide l’ellenizzazione dell’Islam, con la fondazione di Bagdad ed ebbe il suo culmine nel XI secolo. A questo periodo risale la realizzazione della Casa della Sapienza, proprio a Bagdad, accademia per scienziati e filosofi dove viene “inventato” dai nestoriani l’arabo scientifico, sia sul piano lessicale che su quello della sintassi. Il galenismo sistematico rappresenta, pertanto, una invenzione araba, sebbene ad esso sia associata la creazione di manuali e compendi, capaci di trasmettere al mondo occidentale indicazioni utili per la pratica.

Il secondo periodo annovera medici celebri, fra cui spicca in assoluto la figura di Avicenna, uno dei maggiori ingegni del mondo scientifico arabo. Dotato di una intelligenza originale e precocissima, studiò oltre alla medicina, numerose altre scienze come la filosofia, la matematica, le lettere, l’astrologia. Quando iniziò a dedicarsi alla medicina, assurse subito a grande fama, tanto da essere nominato a diciotto anni medico di corte, carica che gli conferì onore ma soprattutto la possibilità di accedere alla preziosa biblioteca reale.
Viaggiò a lungo, per motivi di studio e durante uno dei sui viaggi a Hamadan, morì precocemente a cinquantasei anni.
La sua opera principale, Il canone di medicina, sintetizza e coordina la medicina di Ippocrate e Galeno con la filosofia di Aristotele, aggiungendo anche nozioni personali. Il Canone era fondato su una vasta cultura più che su cognizioni derivanti da esperienze personali ed è rimasto sia in Oriente che in Occidente un’opera indiscutibile e che contribuì a rafforzare, fino al sedicesimo secolo, il dogmatismo imperante.

Il terzo periodo della medicina araba si svolse prevalentemente in Spagna, con la presenza di alcuni esponenti come Avezoar (critico di Avicenna a cui viene attribuita la scoperta dell’acaro della scabbia) e Averroè, filosofo e autore del “Colliget” una enciclopedia medica che contiene diverse considerazione di ordine generale sulla medicina.

Va segnalato che dove gli arabi diedero il maggior contributo allo sviluppo della medicina fu la farmacologia.
Quando essi si trovarono a vivere in paesi fertili e in climi adatti allo sviluppo della vegetazione, scoprirono nuove piante medicinali; nella scuola di Alessandria, in contatto con l’alchimia, ne approfondirono la conoscenza, dando origine alla chimica, che consentì loro di ottenere nuove sostanze ad uso medicinale, come gli ossidi metallici, il latte di zolfo, l’acido solforico. Si deve inoltre ai medici arabi la scoperta di nuove preparazioni farmaceutiche come le tinture, gli elisir, i distillati, gli sciroppi, nonché la messa a punto delle tecniche di sublimazione, distillazione, cristallizzazione che permisero di purificare i farmaci e isolare da essi alcuni principi attivi.
Tra i farmaci semplici più utilizzati si trova lo zucchero, prodotto rivoluzionario proveniente dalla cultura orientale, che consente di prolungare attraverso specifiche preparazioni la durata di rimedi semplici.

 

La medicina bizantina

Col trasferimento del potere a Bisanzio nel 330, con l’imperatore Costantino, venne trasferita anche la cultura: si fondarono scuole e accademie, si trasferì anche la cultura medica insieme ai principi dell’igiene, comprese le terme.

La medicina ebbe un periodo di auge, che durò fino all’ottavo secolo circa, definito della “medicina bizantina”. Una denominazione utile non solo per indicare i medici lì nati e vissuti, ma più in generale coloro che la rappresentarono: Oribasio, Aezio, Alessandro e Paolo di Egina.

Essi ripresero quanto detto da Galeno e seguaci, sebbene vada segnalata la fondazione di molti ospedali ed il sorgere della medicina sociale.

Questi medici ebbero il grande merito di aver raccolto e trascritto molte opere dei loro predecessori, che altrimenti sarebbero andate perse: vennero definiti i “compilatori bizantini” per aver raccolto e riordinato i lavori degli autori del mondo classico. 

Avvenne a Bisanzio una disputa tra il vescovo Cirillo e il vescovo Nestorio. Quest’ultimo perse e fu cacciato da Costantinopoli; si rifugiò quindi in Medio oriente, nelle zone dell’lraq ed in Egitto. Nestorio portò con sè tutto il bagaglio culturale classico, compreso quello medico, ponendo quindi le basi allo sviluppo di una concezione medica simile a quella presente nell’antica Roma.

La chirurgia cinese

La prima operazione della chirurgia cinese di cui si ha notizia è l’evirazione, associata alla castrazione, introdotta intorno al 700 a.C., per poter fornire eunuchi al palazzo imperiale.
Una operazione di pratica molto comune, entrata nella pratica nello stesso periodo e mantenuta fino al secolo scorso, era quella relativa alla fasciatura dei piedi delle donne e bambine per rispondere ad un senso estetico piuttosto discutibile.

Come in altre civiltà, anche in Cina la chirurgia era principalmente rivolta alla cura delle lesioni traumatiche e di quelle dei tessuti più superficiali.


Il chirurgo più celebre dell’antica Cina fu Hua Tuo, vissuto nel periodo della dinastia Han (115 – 205 d.C ) e durante l’epoca dei Tre Regni. Incerta la sua data di nascita, attorno al 140 – 150 d.C.,fonti attendibili attribuiscono la sua morte attorno al 205 d.C.. Proveniente dal distretto di Pei, a lui si attribuisce l’invenzione dell’anestesia, grazie alla somministrazione di una bevanda narcotica, da lui stesso preparata, probabilmente a base di canapa indiana. Divenne il chirurgo più abile della sua epoca e uno dei medici più innovatori della storia della medicina cinese, la sua abilità in campo chirurgico, gli permetteva di effettuare operazioni al cervello, laparatomie e complesse operazioni di chirurgia addominale.

La chirurgia ebraica

L’unica operazione chirurgica a cui fa riferimento la Bibbia è la circoncisione, a proposito della quale sottolinea come essa fosse compito del sacerdote per tener fede al patto con Dio. Pare che fosse una pratica in sostituzione del sacrificio della vita umana: l’uomo, così, offriva una parte di sé, senza arrecare danno al corpo. Pare anche, secondo alcuni storici, che tale intervento fosse praticato a scopo igienico per prevenire l’insorgenza di balaniti, allora molto frequenti.
Il Talmud contiene alcune nozioni e indicazioni di medicina, pur essendo un libro di leggi e precetti: l’anatomia viene descritta in modo particolareggiato e vi sono descritte pratiche chirurgiche elementari.

Dallo studio successivo della Bibbia e del Talmud, risulta che gli ebrei raggiunsero un ragguardevole livello tecnico: pare, infatti, fossero eseguite con buoni esiti numerosi operazioni tra cui la fistola anale, l’ano iperperforato nei neonati e curavano fratture e lussazioni con sistemi razionali.

La rinoplastica? una invenzione indiana!

“Colui che conosce solo un ramo del sapere medico è come un uccello che ha un’ala sola” sosteneva Susruta, il più famoso medico indiano, che scriveva nel suo trattato: “L’arte della chirurgia è la prima e la più grandi tra le arti del guarire”. A differenza di altre civiltà, che relegavano il chirurgo a ruolo di servitore del medico, gli indiani ne avevano la massima considerazione. E nonostante la ricchezza degli strumentari chirurgici a disposizione (se ne contano ben 121 nel trattato di Susruta), egli stesso sottolinea come “lo strumento migliore è sempre la mano del chirurgo”.

Susruta fu un medico indiano, considerato comunemente il padre della chirurgia indiana, e da molti il primo a sistematizzare la medicina; da lui vengono descritti settori della pratica come la neurochirurgia, la chirurgia plastica, l’ortopedia, la tossicologia, la psichiatria e la deontologia del medico. Pur avendosi poche notizie della sua vita, gli storici sono generalmente concordi nel situarlo tra il 1200 a.C. e il 600 a.C.

Numerosi sono gli interventi descritti nel trattato, nonostante la scarsa conoscenza dell’anatomia, tra cui l’estrazione del calcoli per via perineale, la laparotomia per occlusione intestinale, l’asportazione dei tumori del collo e la tonsillectomia attraverso l’utilizzo di una pinza “a ganasce” che costituisce il primo passo verso la modernità.
Ma la chirurgia indiana è famosa e conosciuta per la rinoplastica, non a scopo estetico, ma per la ricostruzione dei nasi amputati. Questa mutilazione, infatti, era praticata a scopo punitivo verso gli adulteri.
Susruta ideò questo metodo, che consisteva nel ritagliare in una foglia di d’albero un modello corrispondente alla grandezza del pezzo di un naso amputato, di applicarlo sulla fronte del paziente, di ritagliare un pezzo di pelle conforme lasciandovi però attaccato un peduncolo, di scarnificare il moncone del naso e quindi di applicargli sopra il pezzo di pelle ritagliato, dopo averlo ripiegato nel suo peduncolo, suturandolo ai margini del moncone e introdurre due tubicini per calibrare le narici e consentire la respirazione al paziente.