Le Medical Humanities per costruire ponti contro la violenza

Intervista a Pietro Barbetta realizzata da Patrizia Santinon, coordinatore scientifico Centro Studi Cura e Comunità per le Medical Humanities Alessandria

Pietro Barbetta: Psicoterapeuta, Docente universitario, già Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, attuale Direttore dell’International School of Systemic Therapy (in Transcultural Contexts), tra i suoi recenti libri: con Gabriella Scaduto Diritti umani e intervento psicologico, Firenze: Giunti, 2021; con Maria Esther Cavagnis, Britt Krause e Umberta Telfener Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practices, London: Routledge, 2022; Introduzione e cura del volume fotografico di Carla Cerati La classe è morta, Milano: Mimesis, 2023; Linguaggi senza senso. Clinica transculturale, Milano: Meltemi, 2023.
Quali specificità e limiti hanno dal tuo punto di vista i sistemi di prevenzione e cura per la salute mentale degli adolescenti e giovani adulti in Italia?

Dal mio punto di vista, i sistemi di cura non hanno il compito di far ingoiare la pillola dell’adattamento, integrazione, raggiungimento di una meta, creare una latenza di sottomissione. La specificità è aiutare il soggetto a riflettere sulla propria esistenza, permettere al dissenso di trovare forme espressive non violente, ma critiche. Come sosteneva Albert Camus in L’homme révolté, la rivolta è indignazione verso il negativo, non è pensiero negativo, è pensiero positivo indignato, e Marta Nussbaum in Upheavals of Thought, insegna che l’atteggiamento democratico di fronte all’ingiustizia, non sia svergognare il reo, quanto indignarsi di fronte all’ingiusto. Forse, se gli adolescenti e i giovani adulti incontrassero qualcuno che, anziché far loro la morale benpensante, prendesse posizione con le loro inquietudini, li aiutasse a riflettere sul fatto che spesso emergono dall’indignazione di fronte a un mondo ingiusto e indifferente alle ingiustizie, avremmo meno ribelli senza causa, meno disturbi borderline, meno autolesionismo e pulsioni suicidarie. Ma è un lavoro che i sistemi di cura devono svolgere nella singolarità dell’incontro, senza liquidare la sofferenza con una diagnosi, una prognosi, un trattamento e spesso una contenzione generiche.

Come descriveresti la specificità della neuropsichiatria infantile in ambito transculturale? Quali dispositivi sono messi in atto nel centro di terapia della famiglia da te diretto a Milano allora e in quello di Bergamo oggi per gli adolescenti e le loro famiglie?

Intanto “neuropsichiatria infantile” è un termine tutto italiano. In altri ambiti si parla di psichiatria infantile o di pedopsichiatria. Che poi esistano bambini con disturbi neurologici nessuno lo nega, ma “neurologia” e “psichiatria” sono discipline che si sono differenziate nel tempo a partire da Charcot, Kraepelin e definitivamente con Freud e l’avvento della psicoanalisi. Nella nuova scuola di Terapia Sistemica Transculturale avremo, tra i docenti, alcune neuropsichiatre infantili che dirigono gli UONPIA del territorio e che incontrano quotidianamente bambini con disordini come DSA, ADHD, Ritardi cognitivi, forme differenti di autismo, e altre disabilità. Inoltre ci sono bambini che soffrono di enuresi, encopresi, stipsi psicogene – descritte con maestria da Elvio Fachinelli nel Bambino dalle uova d’oro. È importantissimo il coinvolgimento della famiglia. In generale, salvo eccezioni, lo sguardo dei genitori e dei parenti, nel cambiare ottica, depatologizza le bambine e i bambini. Poi ci sono bambine e adolescenti senza genitori (minori non-accompagnati è il termine giuridico, ma è bene che il clinico non si assoggetti alla terminologia oggettivante dei giuristi, sopratutto quando si ha a che fare con bambini e adolescenti). Qui le cose si complicano, si tratta di fare un grande lavoro di rete dei servizi con i contesti formali e informali, come le comunità di appartenenza, nel caso di bambini stranieri. Nel lavoro etnoclinico presso Forme (centro etnoclinico della cooperativa Ruah di Bergamo) abbiamo a lungo lavorato anche nella consultazione delle UONPI e nella gestione di rete in molti dei questi questi casi.

Si parla di “rivolta francese e diritti negati” in un commento sulla rivolta francese di concita de Gregorio: “tutti devono avere la possibilità di cambiare le condizioni assegnate in partenza. Siamo a posto col compito?” Quale può essere il contributo delle Medical Humanities in tal senso, verso la costruzione di “ponti oltre la violenza”?

Le Medical Humanities, nel creare un orizzonte culturale, letterario, filosofico, antropologico e artistico per la formazione dei medici, degli infermieri, degli psicologi e della altre professioni della salute hanno un ruolo centrale. Un tempo i medici frequentavano molto di più le sedute di psicoanalisi, le scuole di psicoterapia (quando la feci io, negli anni Ottanta, la stragrande maggioranza degli allievi erano psichiatre/i, neuropischitre/i infantili, ginecologhe, medici del lavoro di medicina legale, fisiatre/i). Oral e humanities sembrano essere state bandite anche nei corsi di psicologia, dove prevale il dogma TCC e una quantità di tecniche che servono solo a semplificare e a rendere gli operatori sempre più aggressivi. Studiare Shakespeare, ascoltare Monteverdi, conoscere Francis Bacon, studiare Spinoza o Deleuze, leggere un romanzo di Garcia Marquez è importantissimo e non va lasciato al caso di una passione da hobby, Conoscere alcune lingue aiuta ad accogliere in inglese i pazienti Yoruba e Igbo, in francese i pazienti Wolof e Poular, in spagnolo i pazienti peruviani, messicani, colombiani, ecc. migranti, nomadi, fuori dal territorio, spesso più colti e perspicaci di noi, basta aver un  atteggiamento di curiosità.

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