IL CONFLITTO DI INTERESSI IN MEDICINA NEL CORSO DEI SECOLI

di Franco Lupano, Presidente Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospedaliera

Una lunga storia

Per tutta l’antichità, non vi era alcuna distinzione tra chi confezionava i farmaci e chi li prescriveva, e tale situazione si protrasse per tutto il Basso Medioevo. Ma giunti intorno al 1200 le due figure di medico e di farmacista vengono divise e da quel momento tutta la legislazione sembra avere un chiodo fisso: evitare accordi economici tra le due professioni.

È l’imperatore Federico II a legiferare per primo sulla materia. Nelle sue Constitutiones Regni Siciliae, promulgate tra il 1230 e il 1240, stabilisce la necessità di autorizzazione da parte di un Collegio Medico per l’esercizio della farmacia, e ordina che il medico non contragga società coi farmacisti (societatem cum confectionariis), né che tenga una bottega farmaceutica di sua proprietà. Dunque, il conflitto d’interessi viene subito visto come un rischio concreto, che non si attenuerà col passare del tempo ma, anzi, richiederà continui richiami, leggi, decreti, da parte dei governanti.

A Venezia, nel 1258 il Capitolare dei medici ai commi IV e V vietava sia la cointeressenza tra medici e speziali nei guadagni dalla vendita dei farmaci, sia la presenza di un medico che esercitasse nella farmacia stessa:

“…non habebo societatem cum aliquo apotecario, scilicet quod habeam portionem lucri medicinarum que venduntur pro me in statione apotecarii.[1]

Il divieto si ripete nelle leggi e ordinamenti di numerosi Comuni e Stati italiani. Lo troviamo infatti negli statuti comunali di Trento, che risalgono alla prima metà del 1300; negli Statuta Civitatis di Recanati del 1426, negli Statuti della Magnifica Città di Verona del 1561, dove si aggiunge anche il divieto di indirizzare i pazienti in una specifica farmacia.

Tuttavia, diverse città accettavano o almeno tolleravano accordi e società a vario titolo tra medici e speziali, e anche dove vigeva il divieto la sua efficacia era scarsa.

A Firenze, ad esempio, molti medici avevano continuato a gestire farmacie in proprio e altri aggiravano il divieto avviando una farmacia intestata a un parente. Così nel 1550 il duca Cosimo I decise di ribadire e inasprire le norme già note, e di farle rispettare. Gli uffici Ducali vennero sommersi di lettere di medici che si trovavano nella spiacevole situazione di dover lasciare una attività lucrosa, spesso più dell’arte medica. Leggiamo la supplica di Maestro Nanni Buselli medico fisico della città di Arezzo, datata 27 novembre 1550:

“…trovandosi lui gravato di otto figlioli co’ tale poche facoltà et avendo già dua suoi figlioli inviati al exercitio della spetieria e per fargli pigliare in tale exercitio qualche sussistentia (…) bisogna che detto Nanni co’ tutta sua famiglia vadi mendicando perché non le possibile che col guadagno del medicare solo, quale ha poco, possa tal povera famiglia sustantare”

Non risulta che il duca si sia mosso a compassione per il Buselli, né per gli altri che erano ricorsi a lui, salvo concedere alcuni mesi di proroga per smaltire le scorte di medicinali.

A un certo punto, qualcuno “perde la pazienza” lasciandosi prendere un po’ la mano. L’Arcivescovo Gianfrancesco Stoppani, governatore dello stato di Urbino, nel 1752 emise un “Bando sopra quelli che medicano e fanno spezierie”, di cui riportiamo il paragrafo IX:

“E credendosi impossibile, e come sarebbe nefando l’avere unione d’interesse i medici cogli speziali, intorno gli utili della spezieria, perciò rigorosamente si procederà, etiam per inquisitionem, contro simili, che tenessero interesse, o commercio unito, sotto pena di scudi cento per ciascheduno, ed altre etiam corporali a nostro arbitrio”.

Non sappiamo se e quante volte sia stata coinvolta l’inquisizione per tale reato, né se siano mai state comminate pene corporali. In ogni caso, con la Rivoluzione Francese e l’avvento di Napoleone in Italia si ritorna a semplici pene pecuniarie. Il “Manuale dei chirurghi, medici, speziali, levatrici” pubblicato a Milano nel 1812 recita:

È vietato il cumulativo esercizio delle professioni medica e chirurgica con quella di farmacista, o di stare associati d’interesse o di abitazione dei medici, chirurghi ecc. con dei farmacisti” e i contravventori di tali regole “incorreranno in una multa non maggiore di lire 150 italiane”.

Con l’ingresso nel XIX secolo il problema, lungi dall’essere risolto, diventa di dominio popolare. Infatti nella famosa poesia “Il medico condotto” scritta nel 1845 da Arnaldo Fusinato, una strofa recita:

Ordini a caso qualche sciroppo,

O qualche pillola che costi troppo,

È tutto inutile, ragion non vale,

Tu sei d’accordo con lo speziale.

Conclusioni

Nel 1992 l’inchiesta Mani Pulite, colpisce pesantemente anche la Sanità. Il ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, e il direttore generale del Servizio Farmaceutico del Ministero, Duilio Poggiolini, entrambi medici, sono accusati e processati per aver ricevuto tangenti dall’industria. Il memoriale redatto alcuni anni dopo da Poggiolini è un bell’esempio di come reagiscono molti medici quando gli viene contestato un conflitto di interessi.

1) Le elargizioni ricevute sono sempre state insistentemente offerte senza alcuna richiesta da parte mia e senza alcuna contropartita

Ma perché mai un’industria dovrebbe spendere denaro, che nella fattispecie è arrivato ad ammontare a miliardi di lire, senza alcun ritorno economico? Gli investimenti di un produttore sono finalizzati alla vendita, e se dopo la prima elargizione non segue una soddisfacente contropartita, vengono subito interrotti e casomai dirottati su qualcun altro.

2) Parte di esso non fu nemmeno effettivamente ricevuto in quanto destinato al finanziamento di lavori scientifici e allo sviluppo di attività internazionali (convegni, congressi)

Sembra che non ci sia consapevolezza che una ricerca finanziata dall’industria possa esserne condizionata, così come un congresso venga sponsorizzato solo se non va contro l’interesse dei produttori.

3) I cittadini non hanno sofferto in alcun modo oneri economici né hanno subito tanto meno danno alla propria salute

Se un farmaco concedibile viene approvato con un prezzo gonfiato, è un onere che non ricade sul singolo ma su tutta la collettività. Oltre tutto il costo dei farmaci è determinato anche dal costo della sua promozione, tangenti comprese. E sostenere che nessuno ha avuto un danno alla salute deve essere dimostrato: sono numerosi gli esempi di farmaci ritirati dal commercio per effetti collaterali che non erano stati evidenziati negli studi preliminari.

Al giorno d’oggi, nessun medico è disposto a riconoscere che le aziende farmaceutiche possono influenzare le sue prescrizioni attraverso regali, viaggi, congressi pagati, corsi di formazione gratuiti. Alla domanda diretta se si sente condizionato da tali favori, la risposta più probabile è “Io no, forse altri colleghi…”. Nessuno nega che chi produce e vende cerchi in tutti i modi di vendere sempre di più e aumentare i profitti, attraverso la pubblicità e la promozione dei propri prodotti. Ma poiché la vendita dei farmaci nella maggior parte dei casi richiede un intermediario, cioè il medico, è naturale che tale promozione sia fatta su di lui. Era già chiaro ottocento anni fa.

[1] “Non avrò società con alcun farmacista, cioè non avrò una parte di lucro sulle medicine da me prescritte e vendute in farmacia”

Franco Lupano, Medico di Medicina Generale, CSeRMEG – Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale CISO – Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospedaliera, è stato medico di famiglia a Trofarello in provincia di TorinoFormatore in Medicina Generale, si occupa della formazione specifica e permanente dei medici di famiglia; è inoltre incaricato dell’insegnamento tutoriale agli studenti del Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di Torino. Oltre ad essere Presidente del CISO Piemonte, è autore di varie pubblicazioni e collabora a riviste specializzate con articoli di storia sanitaria, in particolare sulla sanità pubblica, i medici condotti, il conflitto di interesse, la relazione medico-paziente.

Una riflessione critica sul modello biopsicosociale a partire dal dolore cronico

A cura di Francesca Memini, Rossella Failla e Chiara Di Lucente, professioniste della comunicazione in ambito salute

Sono trascorsi due anni da quando abbiamo cominciato a studiare a fondo il dolore cronico, con l’obiettivo di sviluppare un’app per l’educazione e il self management dei pazienti in un’ottica biopsicosociale. Lo studio della letteratura scientifica, infatti, ci ha posto di fronte alla necessità di proporre un approccio integrato e interdisciplinare che agisca sui determinanti emotivi, cognitivi e sociali dell’esperienza di dolore cronico. Nello stesso tempo, però, proprio dallo studio del dolore cronico abbiamo rilevato alcune criticità del modello biopsicosociale che vale la pena approfondire.

Come (e perché) nasce il modello biopsicosociale della salute

Era il 1977 quando lo psichiatra George Engel espose la sua critica al modello biomedico della medicina in un famoso articolo su Science:

Il modello dominante di malattia oggi è quello biomedico, basato sulla biologia molecolare. Esso presuppone che la malattia venga pienamente spiegata dalle deviazioni dalla norma delle variabili biologiche (somatiche) misurabili. Non lascia spazio all’interno della sua struttura per le dimensioni sociali, psicologiche e comportamentali della malattia.

La scarsa attenzione per queste dimensioni della malattia genera una situazione di insoddisfazione da parte dei pazienti, “secondo i quali i medici sono insensibili, negligenti, arroganti e meccanici nel loro approccio”. Inoltre, nonostante i grandi risultati raggiunti, esistono numerose condizioni che non riescono ad essere spiegate con questo approccio riduzionista, ponendo il paziente, che comunica un’esperienza di sofferenza (illness), e il medico, che non trova con questi strumenti un correlato patologico (disease), su un piano potenzialmente conflittuale invece che di cura.

A questo modello Engel ne contrappone un altro che a suo avviso è capace di valutare il paziente in maniera olistica, senza ridurlo alla sola dimensione biologica: il modello biopsicosociale (BPS). Secondo questo approccio la malattia è sempre l’esito di interazioni tra fattori biologici, psicologici e sociali. Alla causalità lineare dell’eziopatologia si sostituisce la causalità reciproca, in un’ottica di interazione tra sistemi.

Partendo dalla sua specializzazione, la psichiatria, Engel auspicava che questo modello fosse esteso a tutta la medicina e portasse un cambiamento nella formazione degli operatori sanitari, chiamati ad acquisire nuove competenze attingendo anche alle scienze sociali.

Nel corso degli anni questa proposta è stata ampiamente sposata dalle istituzioni, tanto che oggi troviamo il modello BPS nei libri di testo, nelle linee guida cliniche, negli studi scientifici che sempre di più cercano di mettere in luce le correlazioni tra le diverse dimensioni della malattia. Un solo esempio su tutti: nel 2002 l’OMS ha pubblicato la Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute (WHO ICF), richiamando esplicitamente il modello biopsicosociale.

Nella sua versione più recente, il modello BPS è strettamente collegato alla medicina centrata sulla persona: una persona che abita un corpo ma che è anche sempre calata in una situazione psicologica, in un contesto temporale, in un ambiente fisico e relazionale. Una persona che si muove nel mondo, un mondo fatto di comportamenti, significati e scelte.

Oggi una delle condizioni che viene concordemente spiegata e trattata all’interno di questo modello è anche quella per cui più spesso ci rivolgiamo a un medico: il dolore, in particolare il dolore cronico, che, secondo l’OMS, rappresenta uno dei maggiori problemi mondiali di salute pubblica.

Il dolore e il dolore cronico per la medicina restano ancora oggi qualcosa di misterioso che non si riesce a misurare oggettivamente e di cui non si riescono a individuare chiaramente i correlati neurobiologici, qualcosa che necessita della testimonianza del paziente più che delle indagini strumentali, per essere portato alla luce e preso in carico.

Allo stesso tempo, il fatto che il dolore cronico sia stato da anni inquadrato all’interno del modello biopsicosociale, ci fornisce l’occasione per rilevare alcune criticità e potenziali distorsioni di questo modello.

Il dolore: un fenomeno multidimensionale

Prima di proseguire, facciamo il punto su quello che sappiamo della neurobiologia del dolore. Sappiamo che il dolore acuto da un punto di vista evolutivo ha una funzione precisa: serve per proteggerci da un danno che colpisce il nostro corpo oppure da un danno che potrebbe colpirlo. In pratica il dolore ci avverte di un pericolo, attuale o potenziale, e ci porta a reagire per proteggerci.

Partendo da un approccio puramente biomedico, il primo fenomeno che incontriamo e che potremmo considerare il meccanismo che genera il dolore è la nocicezione: abbiamo delle cellule preposte alla percezione del dolore, disseminate in tutto il corpo, che come delle sentinelle, inviano il segnale di una lesione tissutale al sistema nervoso centrale.

Peccato che questa spiegazione non riesca a spiegare davvero molte situazioni, anche quotidiane, che caratterizzano l’esperienza comune del dolore. Dolore e nocicezione sono processi distinti: è possibile provare dolore anche senza nocicezione (un esempio è il dolore da arto fantasma) e anche in assenza di un danno reale ai tessuti. E viceversa, è possibile che i nocicettori segnalino un danno, ma il cervello decida di non generare la risposta di dolore, inibendo il segnale dolorifico, attraverso il rilascio di sostanze chimiche dette oppioidi endogeni.

Per questo oggi da un punto di vista neurofisiologico si parla di “sistema del dolore”: il fenomeno del dolore viene prodotto dal cervello coinvolgendo diverse parti del sistema nervoso e diversi processi biochimici e fisiologici, che si attivano per dare vita a un’esperienza multidimensionale, che non è solo fisica.

Conosciamo anche a grandi linee quali sono le parti del sistema nervoso coinvolte nella dimensione sensoriale-discriminativa (che determina localizzazione, intensità e durata del dolore) e nella dimensione affettivo-motivazionale (quella che configura il dolore come esperienza spiacevole). Più complesso, invece, comprendere i meccanismi dietro la dimensione cognitivo-valutativa, che ha a che fare con la valutazione dei significati e delle conseguenze di una lesione o di un dolore.

Per individuare le aree del cervello preposte a questa funzione dovremmo prima comprendere il rapporto tra contenuti mentali, consci e inconsci, e attività neuronale, in pratica niente meno che il rapporto mente-cervello. Per ora limitiamoci a constatare un dato ampiamente documentato nella letteratura scientifica, e cioè che le nostre credenze, le aspettative, i significati che attribuiamo al contesto e alle relazioni, possono modulare l’esperienza del dolore.

L’esempio che fa saltare definitivamente il modello biomedico come modello esplicativo dell’esperienza del dolore è l’effetto placebo. Gli effetti placebo, infatti, sono i benefici salutari che derivano dalla partecipazione e dall’immersione nei rituali, nei simboli e nei comportamenti incorporati che avvengono in un qualsiasi interazione medica, a prescindere che essa preveda un intervento attivo. Sembra, infatti, che la relazione tra il contesto e alcuni meccanismi psicologici come le aspettative e il condizionamento vada ad attivare meccanismi inibitori del dolore in maniera particolarmente efficace; si parla del 35% per il placebo “in pillola” e fino al 50% per la messa in scena di interventi chirurgici. E funziona anche quando il placebo viene somministrato come “open label”, ovvero mettendo al corrente chi partecipa all’esperimento che sarà sottoposto a un trattamento placebo.

Il dolore cronico e il modello biopsicosociale

Il dolore non è un fenomeno patologico. È il nostro sistema di allarme e si tratta di una funzione vitale per la sopravvivenza dell’organismo. Il dolore cronico, invece, è considerato una vera e propria malattia, un guasto del nostro sistema di allarme, ma un guasto in un sistema che coinvolge la totalità dell’esperienza umana. E qui le cose si complicano.

Il dolore cronico è definito come quel dolore persistente, continuo o ricorrente che dura più di tre mesi (ICD-11). In un modello puramente biomedico sarebbe impossibile considerarlo una vera e propria patologia: non ha una chiara eziologia, spesso è generico, cambia da persona a persona e anche nel corso del tempo. E non sempre si riesce a trovare l’origine, la sede o la causa del “guasto”.

I risultati di test d laboratorio o di esami di imaging non trovano corrispondenza con l’intensità del dolore riferita dalla persona o con l’impatto sul funzionamento in disturbi di vario tipo come il mal di schiena, il colpo di frusta e l’osteoartrosi. Inoltre, trattamenti chirurgici, fisici o farmacologici identici in persone con la stessa diagnosi possono produrre esiti anche molto diversi. Com’è possibile tutto questo?

Oggi una delle ipotesi più accreditate è che ogni forma di dolore cronico abbia una componente di sensibilizzazione del sistema nervoso centrale (CSS), un fenomeno la cui eziologia e patofisiologia non è completamente compresa.

Alcuni esempi delle numerose condizioni che sono state attribuite a sensibilizzazione centrale sono la fibromialgia (FM), la sindrome da fatica cronica, la sindrome dell’intestino irritabile (IBS), il dolore pelvico cronico, il disturbo dell’articolazione temporomandibolare e l’emicrania. Si tratta di condizione che hanno una serie di caratteristiche comuni, ma l’insieme dei sintomi e la gravità dei sintomi specifici variano notevolmente.

Uno dei vantaggi del modello biopsicosociale è proprio la sua capacità di rendere conto della grande variabilità individuale, esplicitando la causalità reciproca tra fattori biologici come la predisposizione genetica e fattori psicologici e sociali, che possono variare notevolmente tra gli individui e nel tempo.

Il modello biopsicosociale implica che una valutazione e un trattamento efficaci del dolore cronico debbano incorporare aspetti di ciascuna di queste componenti, considerando un’ampia gamma di determinanti in grado di attivare, stimolare, mantenere e peggiorare il dolore.

Trattare il dolore cronico non può che essere un processo collaborativo e continuativo che coinvolge un team interdisciplinare e il paziente, sia come individuo sia nella sua relazione con i curanti e con la sua rete sociale. Ma a dirla tutta, dovrebbe coinvolgere l’intera società: l’ambiente lavorativo, il sistema sanitario, la cultura troppo spesso stigmatizzante.

Nonostante il modello BPS del dolore cronico sia praticamente riconosciuto da tutti, le persone che ne soffrono lamentano ancora esperienze negative: spesso non vengono credute (anche dai professionisti sanitari) e prima di ricevere una diagnosi e un trattamento sono costrette a lunghe peregrinazioni tra diverse figure sanitarie, a sequele di esami inutili (generalmente a proprio carico). Infine raramente ricevono cure che coinvolgono davvero tutte le dimensioni che hanno un impatto sulla qualità della vita.

La radice di questa difficoltà nell’applicare il modello biopsicosociale nella pratica clinica viene spesso attribuita alla resistenza dei sistemi sanitari, alla mancanza di una formazione adeguata per gli operatori della salute e al loro attaccamento dogmatico al modello biomedico. Le ragioni sarebbero, in sostanza, squisitamente culturali e organizzative.

E se, invece, il modello biopsicosociale non venisse messo in pratica perché non può essere messo in pratica?

Limiti e rischi del modello biopsicosociale

Uno dei problemi del modello biopsicosociale è che si tratta di un modello teorico, una cornice sviluppata per proporre un nuovo approccio alla clinica e alle politiche sanitarie. Peccato che l’articolo di Engel non spiegasse come tradurlo in pratica.

Un recente articolo (Mescouto 2020) ha provato a fare una revisione critica di come viene inteso il modello BPS tra i fisioterapisti nella cura della lombalgia non specifica. In generale sembra emergere il tentativo di riportare il modello BPS a una matrice riduzionistica, per esempio spiegando l’esperienza umana in termini neurofisiologici (come del resto abbiamo fatto anche noi nel paragrafo sul dolore) o utilizzando come parametri di valutazione solo quelli fisici e in qualche modo quantificabili (per esempio l’intensità del dolore), ignorando dimensioni importanti come quelle linguistiche, culturali o sociali.

Studi come questo ci suggeriscono che l’approccio biopsicosociale, anche se universalmente accettato, viene inteso non come un vero e proprio dominio ma più come un insieme di “pezzi” che si sommano e che vengono trattati separatamente, da specialisti diversi ciascuno sulla base di costrutti specifici della sua specialità.

Secondo il neuropsicologo Jens Foell:

C’è una sequenza nell’amalgama delle lettere: “bio” prima, seguito da “psico”, con il “sociale” posizionato alla fine. La sequenza indica una gerarchia, una gerarchia che pone una differenza anche sul piano morale.

Da una parte abbiamo il piano biologico, che rimane superiore. Quando c’è una componente biologica chiaramente individuabile, oggettiva, allora diventa tutto più facile: si tratta di una malattia “vera” che può essere trattata con i consueti interventi della biomedicina, i medici sanno come affrontarla, i pazienti si sentono rassicurati, il sistema sanitario copre le spese, la società può riconoscere la malattia.

Segue la dimensione psicologica, seconda in ordine di importanza ma sempre più riconosciuta insieme al ruolo degli psicologi nella presa in carico del dolore. Purtroppo un’eccessiva enfasi sugli aspetti psicologici può portare a una svalutazione del dolore cronico, riducendolo a disturbo prodotto dagli stati mentali, “psicosomatico” o “psicogeno” e quindi meno “reale” di una ferita o di una patologia con una causa organica.

La psicologizzazione del dolore cronico può avere anche un altro effetto: quando si trova una chiara causa organica il paziente non ha responsabilità, ma se la causa di un disturbo è psicologica allora diventa facile attribuire la “colpa”  (o almeno la responsabilità) al paziente, perché la sfera psicologica è concepita come sotto il controllo della persona. Per stare meglio la persona che soffre di dolore cronico deve impegnarsi in prima persona, modificando i propri pensieri, le proprie emozioni e i propri comportamenti.

Gli approcci cognitivo-comportamentali della psicologia sono generalmente quelli consigliati dalle linee guida della terapia del dolore, anche perché rientrano in un paradigma scientifico più compatibile con quello biomedico (per esempio utilizzano  trial in laboratorio, con outcome il più possibile “oggettivi” e quantitativi),  ma sono anche quelli che meglio si prestano a una deresponsabilizzazione della società. Questa enfasi sull’individuo può aumentare lo stigma, indurre un disinvestimento da parte del sistema sanitario e risultare in disuguaglianze nell’accesso alle cure.

Arriviamo così a una delle critiche più frequenti, a cui spesso è attribuita le responsabilità del “fallimento” del modello BPS: la dimensione sociale raramente viene presa in considerazione.

Questa dimensione non è né sotto il controllo del medico né sotto il controllo dell’individuo, pertanto colloca sia l’uno che l’altro in una situazione di impotenza.

Fin qui sembrerebbero solo aspetti legati a un fallimento nell’applicazione del modello, all’incapacità umana di comprendere e gestire sistemi complessi, alla volontà di piegare il modello a specifici interessi e dinamiche di potere.

Ma sono state avanzate anche critiche più radicali, che mettono in dubbio la stessa validità teorica del modello.

Per esempio, un recente articolo pubblicato sulla rivista Medicine, Health Care and Philosophy (Roberts 2023) sostiene che il modello biopsicosociale non è un modello esplicativo scientifico, ma un framework concettuale.

Non è un modello che può produrre spiegazioni scientifiche dei fenomeni. Piuttosto, è una prospettiva generale che si può adottare per la ricerca e il trattamento. Il modello BPS non è un modello scientifico o esplicativo. Non può essere utilizzato per distinguere la malattia dalla non malattia, definire le malattie o identificare relazioni causa-effetto autentiche.

Secondo Roberts, l’errore di Engels è quello di assorbire il concetto di disease in quello di illness, estendendo in questo modo il raggio di azione della medicina a qualsiasi forma di sofferenza umana. Questo tipo di errore potrebbe portare a una medicalizzazione anche di problemi sociali e ad accrescere il potere della medicina e delle professioni sanitarie in ambiti estranei. Invece che ottenere una medicina più umana, rischiamo di avere una società controllata dalla medicina e dai professionisti della scienza.

Questa critica si sposa bene con l’argomentazione che Engel abbia creato il concetto di modello biomedico come straw man o “argomento fantoccio” (Kontos, 2011): secondo questa ipotesi non esiste un modello biomedico, semplicemente la medicina restringe il suo campo di azione all’ambito biologico perché è così che funziona la medicina occidentale. La  critica di Engel riguardava il comportamento dei medici insensibili e poco inclini all’ascolto del paziente, ma la responsabilità di un tale comportamento è di quei medici, non di una presunta “biomedicina”.

Conclusioni

Non è facile giungere a una conclusione che vada oltre a una serie di caveat e di domande aperte.

Prima di tutto è necessario non dare per scontato il modello BPS, mantenere uno sguardo critico sui fraintendimenti o sugli abusi che può generare, chiedersi se questo modello abbia fondamenta solide da un punto di vista ontologico ed epistemologico, comprendere se esistono possibili alternative o correzioni da applicare.

In particolare, nella nostra esperienza relativa al dolore cronico è stato piuttosto frustrante imbattersi in pubblicazioni scientifiche che continuano a confermare correlazioni tra aspetti diversi dell’esperienza applicando metodi di ricerca basati su causalità lineari. La conclusione che ritorna più spesso è quella di due fattori correlati (stress e dolore, depressione e dolore, regolazione emotiva e dolore, ecc) che si influenzano a vicenda, senza spiegare bene come. Anche per questo nel proporre un’app alle persone che soffrono di dolore cronico abbiamo voluto sposare un approccio che va nella direzione non della spiegazione, ma della comprensione di ciò che funziona meglio per ciascuno di noi. Il nostro punto di vista ha sempre privilegiato l’esplorazione personale della propria esperienza di dolore cronico e delle possibili strategie di autogestione, senza trascurare le indicazioni del medico ma introducendo anche dimensioni diverse come la spiritualità, l’espressione del sé, la mindfulness.

Spiegazione e comprensione riguardano due universi discorsivi distinti, che rimandano rispettivamente alle scienze naturali e alle scienze umane. Il fatto che il dolore cronico sia difficile da spiegare, cioè da conoscere attraverso l’individuazione delle cause, non comporta la rinuncia alla comprensione della propria esperienza soggettiva di dolore. È proprio la comprensione, non tanto la spiegazione, la condizione per imparare a gestire il dolore nella pratica quotidiana. Diventare etnografi della propria vita e rimanere focalizzati sui propri obiettivi, priorità e scala di valori, imparando a conoscere tutte le risorse da cui possiamo trarre sollievo, piuttosto che focalizzarsi sull’eliminazione del dolore attraverso soluzioni lineari.

A nostro avviso l’applicazione del modello biopsicosociale, seppure con i suoi limiti, dovrebbe supportare questo approccio, tenendo bene a mente la complessità con cui i fattori bio- psico- e sociali interagiscono tra loro e con la persona con dolore cronico.

Si impone qui una domanda (tutt’altro che nuova nel dibattito filosofico): siamo sicuri che la medicina sia una scienza naturale e non una scienza umana? È forse necessario introdurre una distinzione sul piano epistemologico tra sapere biomedico (ricerca di base) e pratica clinica? Come si integrano saperi che hanno epistemologie diverse e discordanti e che tendenzialmente oggi sono ancora in conflitto?

Sono tutte domande che richiedono una riflessione su un piano filosofico e sociale.

Infine, un ultimo dubbio: Engel attingeva, anche se in termini generali, alla teoria dei sistemi. Forse il limite del modello biopsicosociale è solo quello di essere rimasto a metà strada e di non aver applicato a fondo il paradigma e i metodi del pensiero sistemico e della complessità, continuando a cercare causalità lineari. Questo campo, tuttavia, esula ampiamente dalle nostre competenze. Lasciamo anche questa domanda aperta, consapevoli che si tratta di un campo di studio vivo e in divenire.

BIBLIOGRAFIA

Engel GL. The need for a new medical model: a challenge for biomedicine. Science 1977; 196: 129–136.

Adams, L. M., & Turk, D. C. (2018). Central sensitization and the biopsychosocial approach to understanding pain. Journal of Applied Biobehavioral Research, 23(2), e12125.

Wade DT, Halligan PW. The biopsychosocial model of illness: a model whose time has come. Clin Rehabil. 2017 Aug;31(8):995-1004. doi: 10.1177/0269215517709890. PMID: 28730890.

Karime Mescouto , Rebecca E. Olson , Paul W. Hodges & Jenny Setchell (2020): A critical review of the biopsychosocial model of low back pain care: time for a new approach?, Disability and Rehabilitation, DOI: 10.1080/09638288.2020.1851783

Foell, Jens. “From Boardroom to Consulting Room to Jobcentre plus: The Bureaucracies of Pain.” In Encountering Pain: Hearing, Seeing, Speaking, edited by Deborah Padfield and Joanna M. Zakrzewska, 111–31. UCL Press, 2021. http://www.jstor.org/stable/j.ctv15d8195.15.

Roberts, A. (2023). The biopsychosocial model: Its use and abuse. Medicine, Health Care and Philosophy, 1-18.

Kontos, N. (2011). Perspective: biomedicine—menace or straw man? Reexamining the biopsychosocial argument. Academic Medicine, 86(4), 509-515.

Sturmberg JP. Health and Disease Are Dynamic Complex-Adaptive States Implications for Practice and Research. Front Psychiatry. 2021 Mar 29;12:595124. doi: 10.3389/fpsyt.2021.595124. PMID: 33854446; PMCID: PMC8039389.

Le Medical Humanities per costruire ponti contro la violenza

Intervista a Pietro Barbetta realizzata da Patrizia Santinon, coordinatore scientifico Centro Studi Cura e Comunità per le Medical Humanities Alessandria

Pietro Barbetta: Psicoterapeuta, Docente universitario, già Direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, attuale Direttore dell’International School of Systemic Therapy (in Transcultural Contexts), tra i suoi recenti libri: con Gabriella Scaduto Diritti umani e intervento psicologico, Firenze: Giunti, 2021; con Maria Esther Cavagnis, Britt Krause e Umberta Telfener Ethical and Aesthetic Explorations of Systemic Practices, London: Routledge, 2022; Introduzione e cura del volume fotografico di Carla Cerati La classe è morta, Milano: Mimesis, 2023; Linguaggi senza senso. Clinica transculturale, Milano: Meltemi, 2023.
Quali specificità e limiti hanno dal tuo punto di vista i sistemi di prevenzione e cura per la salute mentale degli adolescenti e giovani adulti in Italia?

Dal mio punto di vista, i sistemi di cura non hanno il compito di far ingoiare la pillola dell’adattamento, integrazione, raggiungimento di una meta, creare una latenza di sottomissione. La specificità è aiutare il soggetto a riflettere sulla propria esistenza, permettere al dissenso di trovare forme espressive non violente, ma critiche. Come sosteneva Albert Camus in L’homme révolté, la rivolta è indignazione verso il negativo, non è pensiero negativo, è pensiero positivo indignato, e Marta Nussbaum in Upheavals of Thought, insegna che l’atteggiamento democratico di fronte all’ingiustizia, non sia svergognare il reo, quanto indignarsi di fronte all’ingiusto. Forse, se gli adolescenti e i giovani adulti incontrassero qualcuno che, anziché far loro la morale benpensante, prendesse posizione con le loro inquietudini, li aiutasse a riflettere sul fatto che spesso emergono dall’indignazione di fronte a un mondo ingiusto e indifferente alle ingiustizie, avremmo meno ribelli senza causa, meno disturbi borderline, meno autolesionismo e pulsioni suicidarie. Ma è un lavoro che i sistemi di cura devono svolgere nella singolarità dell’incontro, senza liquidare la sofferenza con una diagnosi, una prognosi, un trattamento e spesso una contenzione generiche.

Come descriveresti la specificità della neuropsichiatria infantile in ambito transculturale? Quali dispositivi sono messi in atto nel centro di terapia della famiglia da te diretto a Milano allora e in quello di Bergamo oggi per gli adolescenti e le loro famiglie?

Intanto “neuropsichiatria infantile” è un termine tutto italiano. In altri ambiti si parla di psichiatria infantile o di pedopsichiatria. Che poi esistano bambini con disturbi neurologici nessuno lo nega, ma “neurologia” e “psichiatria” sono discipline che si sono differenziate nel tempo a partire da Charcot, Kraepelin e definitivamente con Freud e l’avvento della psicoanalisi. Nella nuova scuola di Terapia Sistemica Transculturale avremo, tra i docenti, alcune neuropsichiatre infantili che dirigono gli UONPIA del territorio e che incontrano quotidianamente bambini con disordini come DSA, ADHD, Ritardi cognitivi, forme differenti di autismo, e altre disabilità. Inoltre ci sono bambini che soffrono di enuresi, encopresi, stipsi psicogene – descritte con maestria da Elvio Fachinelli nel Bambino dalle uova d’oro. È importantissimo il coinvolgimento della famiglia. In generale, salvo eccezioni, lo sguardo dei genitori e dei parenti, nel cambiare ottica, depatologizza le bambine e i bambini. Poi ci sono bambine e adolescenti senza genitori (minori non-accompagnati è il termine giuridico, ma è bene che il clinico non si assoggetti alla terminologia oggettivante dei giuristi, sopratutto quando si ha a che fare con bambini e adolescenti). Qui le cose si complicano, si tratta di fare un grande lavoro di rete dei servizi con i contesti formali e informali, come le comunità di appartenenza, nel caso di bambini stranieri. Nel lavoro etnoclinico presso Forme (centro etnoclinico della cooperativa Ruah di Bergamo) abbiamo a lungo lavorato anche nella consultazione delle UONPI e nella gestione di rete in molti dei questi questi casi.

Si parla di “rivolta francese e diritti negati” in un commento sulla rivolta francese di concita de Gregorio: “tutti devono avere la possibilità di cambiare le condizioni assegnate in partenza. Siamo a posto col compito?” Quale può essere il contributo delle Medical Humanities in tal senso, verso la costruzione di “ponti oltre la violenza”?

Le Medical Humanities, nel creare un orizzonte culturale, letterario, filosofico, antropologico e artistico per la formazione dei medici, degli infermieri, degli psicologi e della altre professioni della salute hanno un ruolo centrale. Un tempo i medici frequentavano molto di più le sedute di psicoanalisi, le scuole di psicoterapia (quando la feci io, negli anni Ottanta, la stragrande maggioranza degli allievi erano psichiatre/i, neuropischitre/i infantili, ginecologhe, medici del lavoro di medicina legale, fisiatre/i). Oral e humanities sembrano essere state bandite anche nei corsi di psicologia, dove prevale il dogma TCC e una quantità di tecniche che servono solo a semplificare e a rendere gli operatori sempre più aggressivi. Studiare Shakespeare, ascoltare Monteverdi, conoscere Francis Bacon, studiare Spinoza o Deleuze, leggere un romanzo di Garcia Marquez è importantissimo e non va lasciato al caso di una passione da hobby, Conoscere alcune lingue aiuta ad accogliere in inglese i pazienti Yoruba e Igbo, in francese i pazienti Wolof e Poular, in spagnolo i pazienti peruviani, messicani, colombiani, ecc. migranti, nomadi, fuori dal territorio, spesso più colti e perspicaci di noi, basta aver un  atteggiamento di curiosità.

San Gennà pensaci Tu!

A cura di Ileana Parascandolo, Medico Specialista Scienza dell’Alimentazione  e Cure Supportive IRCCS Pascale Asl NA1

La devozione dei Napoletani per San Gennaro è notoria. Il vescovo trentatreenne nato nel 271 dopo Cristo e martirizzato a Pozzuoli nel 305 durante la persecuzione di Diocleziano, è il Patrono della città ed è ritenuto uno dei Santi Patroni più miracolosi di Napoli, insieme ad altri  55 Santi e Sante tra cui Santa Patrizia, San Gregorio Armeno e San Biagio.

A San Gennaro si rivolgono tutti i credenti, per qualunque richiesta di soccorso; infatti grande o piccola che sia, essa viene con fiducia rivolta al Patrono  nella certezza che Lui l’ascolterà.

Non si contano gli epiteti con i quali le “Commare di San Gennaro“ – una congrega di donne a lui devote – lo invocano incessantemente, in particolar modo il 19 settembre, nella ricorrenza del martirio che corrisponde a un  giorno di grande festa a Napoli, in cui avviene il principale “miracolo”: la liquefazione del Sangue del Santo.
Nella chiesa del Duomo gremita di persone, tra canti e incensi sfila il corteo sacro con il Cardinale che regge l’Ampolla del Sangue stretta tra le mani….”Faccia Gialla  Squaglia Squaglia”! -invocano le Commare di San Gennaro, per sollecitare il Miracolo, con una citazione popolare ripresa anche dal noto cantautore napoletano Enzo Avitabile. “Faccia Gialla” indica infatti la statua d’oro del Santo che troneggia sull’abside del Duomo di Napoli, mentre nella Cappella del Tesoro viene esposto parte del corredo aureo e argenteo degli ex voto, un Tesoro che appartiene alla Città e che per splendore e ricchezza ha un valore maggiore dei Gioielli della Corona d’Inghilterra. Tutti trattengono il fiato…E infine un applauso scroscia fortissimo quando il Cardinale alza l’Ampolla per mostrare la liquefazione del Sangue: finalmente può iniziare la festa per chiunque creda che il segno ricevuto porterà benefici alla Città e alla popolazione…. Il sacro e il profano si mescolano in un unico spirito.

Di secolo in secolo, tra progresso, tecnologia e digitalizzazione non si ferma l’entusiasmo del popolo napoletano per questo “Miracolo”. E davvero per miracolo esiste e resiste l’antico Ospedale San Gennaro, nel cuore del Rione Sanità, la cui vicenda è intrecciata a quella del Santo. Nel quinto secolo dopo Cristo, per ospitare le sue reliquie, venne costruita  la Basilica paleocristiana di San Gennaro e Sant’Agrippino, nel cui interno si trova un affresco raffigurante il Santo. Successivamente nell’anno 872 fu annesso un convento benedettino dal Vescovo Atanasio. Nel 1291 i Cavalieri Templari Ospitalieri con il consenso dei Monaci Benedettini, molto esperti della preparazione di medicamenti erboristici, si dedicarono agli ammalati ospitandoli nella struttura che diventò così “Ospizio dei Poveri dei SS. Pietro e Gennaro.” La volta antistante l’accesso presenta un ciclo di affreschi cinquecenteschi con immagini salienti della vita di San Gennaro ad opera di Andrea Sabatini. Nei tempi successivi si alternarono le gestioni ecclesiastiche e laiche ma il Complesso ospedaliero continuò nei secoli a fungere da struttura di cura e soccorso per ammalati e poveri.

Di gestione in gestione, tra chiusure e ristrutturazioni, oggi l’Ospedale è diventato “Struttura Polifunzionale per la Salute dell’Asl Napoli1 Centro” e accoglie numerosi servizi sociosanitari, tra cui un punto di Primo Soccorso, la riabilitazione cardiologica, un poliambulatorio specialistico e l’Unità di Cure Palliative Domiciliari.

Nelle commistioni multifattoriali che sono specifiche di Napoli, il Presidio San Gennaro esprime la sintesi dell’Arte e della Scienza tra patrimonio artistico mirabile; quale i busti dei SS Pietro e Gennaro  di Cosimo Fanzago all’esterno, e le volte affrescate del Chiostro che celebrano la vita ei miracoli del Santo e la Basilica Paleocristiana all’interno.

In tutto questo oggi si distingue, nonostante le difficoltà, il lavoro del personale Sanitario, Sociosanitario e Amministrativo dedicato all’orientamento e all’assistenza dei Pazienti e dei loro caregivers che popolano ogni giorno gli antichi corridoi.

San Genna’…. Pensaci tu!

 

La musica come terapia

La nascita del gruppo come costituzione di un’Équipe Psico-Musicoterapica (EPMt) in collaborazione con il Conservatorio Vivaldi di Alessandria e il Dipartimento DAIRI dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria

articolo a cura di Marzia Zingarelli, Direttrice di Dipartimento di Didattica della Musica, Conservatorio Vivaldi Alessandria e Patrizia Santinon, Direttrice Scientifica Centro Studi Medical Humanities Cura e Comunità

Il 21 giugno del 1982 con l’iniziativa del Ministero della Cultura Francese in tutta la Francia musicisti dilettanti e professionisti hanno preso a invadere le strade, i cortili, le piazze, le stazioni, i musei per la Festa della Musica, un appuntamento che celebra pratiche musicali plurali e gratuite, inclusive. È la Festa di chi la musica la produce.

È stato ricordato in occasione nell’ultimo degli appuntamenti del ciclo di Incontri “Aspettando il Festival” lo scorso 22 giugno, il giorno successivo al Wold Music Day, divenuta Festa mondiale nel giorno del solstizio d’estate.

Nasce nel marzo 2019 l’Equipe Métis Psico-musicoterapeutica come tensione conoscitiva di professionisti di differente formazione e appartenenza e come collaborazione tra due enti, il Conservatorio Vivaldi e l’Azienda Ospedaliera di Alessandria.

In una prima fase di costruzione dell’équipe volta a conoscerci meglio e a costruire un setting adeguato all’intervento musicoterapeutico, meglio definibile allora come laboratorio di musicalità per un gruppo di pazienti ricoverati in quel tempo nel SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dell’Azienda Ospedaliera, recuperammo nel corso di una esplorazione degli spazi dell’ospedale generale un ammezzato che ospitava le varie sigle sindacali come luogo neutro rispetto al reparto di psichiatria, con caratteristiche strutturali e sonore che ci fecero pensare ad un “ventre materno”.

Ci colpirono le parole dei colleghi musicisti e musicoterapeuti attenti al recupero di un patrimonio sonoro individuale con l’implicito di una specificità d’intervento riabilitativo, pensato e costruito per l’individuo e specifico della specificità umana della persona del terapeuta e del paziente.

Il patrimonio sonoro rimanda alle esperienze percettive del neonato che non coglie le singole parole nell’esperienza percettiva in cui è immerso: per il neonato il suono, il tono della voce, il ritmo del discorso sono fusi all’interno di un evento globale di percezione e apprendimento, di scambio emotivo.

Così un intervento musicale può richiamare la vita emotiva primaria attraverso reverie acustiche e s’inscrive in un atto originale di intuizione poetica creativa che da spazio all’emersione di contenuti non ancora istituiti e mai nati piuttosto che contenuti già istituiti.

L’esperienza musicale consente di mettere in comunicazione la realtà interna con quella esterna proprio come avviene nella dimensione pre-natale e pre-verbale del legame madre-bambino in cui il sonoro fatto di escursioni respiratorie, battito cardiaco, movimenti come suoni del materno, del  paterno, dell’ambiente familiare filtrato attraverso la madre, colpisce il feto e lo accompagna in una “esperienza di specularità acustica primaria” (Fornari, 1984).

Lo spazio transizionale e potenziale cui la musica conduce è tale poiché da lì si origina la potenza creativa in un linguaggio che “diversamente dagli altri linguaggi che si muovono dal corpo alla mente si muove dalla mente al corpo, dal simbolico al sensoriale, verso una matrice semantica con un largo potenziale e con una natura di carattere affettiva” (Di Benedetto, 1991).

Il sonoro è la dimensione più autentica del sé, la dimensione sonora e fonetica delle parole materne colpisce il feto e lo accompagna e rappresenta pertanto fin dall’inizio il luogo e il tempo dell’origine dell’Essere in senso winnicottiano.

All’inizio era il Suono, il Suono era presso la madre. La Madre era il Suono (Fornari, 1984) dove viene parafrasato il prologo del vangelo di San Giovanni o Inno al Logos “in principio era il Logos, e il Logos era verso Dio e Dio era il Logos” (1,1-5): il valore affettivo della musica è da riconnettersi con la madre, il primigenio ed è di qui che derivano i legami con la vita emotiva. Proprio nel non verbale in una sorta di regressione alla dimensione primaria l’arte musicale ci permette di connettersi al familiare nel non familiare, Unheimliche, di recuperare esperienze di fusionalità ma anche di separazione. La musica permette dunque in un istante sonoro di risperimentare la gamma emotiva e istintuale che si ha nello sviluppo del sé.

Riportare la dimensione sonora solo all’origine materna potrebbe essere riduttivo poiché il suono non è solo materno ma è anche il suono del mondo esterno (sebbene filtrato dalla reverie materna nella vita intrafetale e nella perinatale) e riguarda anche il non familiare e il paterno. È anche il primo contatto con l’altro.

Le sedute musicoterapeutiche implicano una preparazione minuziosa prima dell’inizio della seduta stessa e implicano un lavoro successivo di intervisione corale sul materiale registrato (musicisti e psicoanalista in qualità di supervisore) e di valutazione qualitativa attraverso lo strumento della scheda del patrimonio sonoro e le schede di valutazione: c’è un lavoro artigianale e personalizzato che coinvolge la persona del musicoterapeuta prima e dopo la seduta.

Esiste contemporaneamente qualcosa che ha a che fare con l’improvvisato, il non preparato, l’insaturo, l’impromptu in un “equilibrio instabile tra ordine e trasgressione, tra libere invenzioni e i vincoli stabiliti dall’armonizzazione e da altro ancora” (Petrella, 2014)

Quello che si costruisce in una seduta musicoterapeutica ha in sé qualcosa di artistico che pertiene l’artista-paziente in seduta senza che questi conosca necessariamente la musica o senza che questi mostri una consapevolezza di quanto accade mentre accade: nel corso dei laboratori di musicalità le proposte musicali dei musicoterapeuti sono trasformate da ciascun paziente/partecipante. Le varie e possibili torsioni trasformative della proposta iniziale sono Trasformazioni appunto (Veranderungen) piuttosto che Variazioni.

In una seduta musicoterapeutica accade di produrre suono prima di pensare in analogia con la regola fondamentale delle libere associazioni in seduta psicoanalitica in cui alla prescrizione pedagogica del “cogito deinde dico” si sostituisce quella del parlare senza pensare nella direzione di una libertà assoluta che qualche volta anche in seduta psicoanalitica diventa puro sonoro, canto spontaneo, respiro o silenzio.

Nei pazienti gravi in specie sopravvissuti alla catastrofe psichica per i quali sembra impossibile mettere a fuoco vissuti traumatici non trasferibili (ancora) nell’area del linguaggio sembra utile spostare l’attenzione al non verbale, alle tracce sensoriali inscritte nella memoria somatica del paziente.

Con pazienti molto regrediti per stabilire una connessione con la mente primitiva occorre diventare oggetti presenti ai sensi prima ancora che all’intelletto: “Occorre esercitare la propria sensibilità estesica a cogliere segni, normalmente non percepiti, nelle componenti fisiche del setting” (odori, suoni, luci colori della stanza) ( Di Benedetto, 2000)

Come scrive Fornari “Il significato inconscio della musica corrisponde al significato inconscio della vita. Il significato inconscio della musica è dato dal recupero della situazione intrauterina (il paradiso perduto). (…) In un certo senso è il significato di tutti i significati, l’Ur – significato senza il quale tutti gli atri significati sarebbero senza significato (Fornari, 1984)

Mi piace pensare che questo linguaggio comune trovato tra operatori della salute mentale e musicisti che fanno musicoterapia, terapeuti dunque e professionisti della musica, abbia come prerequisito l’intuizione della complessità dei vissuti di operatori e pazienti, del reciproco riverbero in una storia di interdipendenze reciproche in continuo divenire la cui comprensione può avvenire solo veicolando i nostri sensi tutti “udire, vedere, odorare e persino sentire emotivamente che informazione sta cercando di farci pervenire il paziente” (Bion 1983)  forgiando una particolare qualità d’ascolto che in contatto con i livelli di base del funzionamento mentale incide sulla forma del manifestarsi del disagio mentale.

Così viene da dire che una mente contenitiva che cura e contiene all’interno di una autentica relazionalità può rispondere al bisogno del paziente di essere contenuto e accolto nel suo livello primitivo mediante l’ascolto e la ritmicità delle sedute. Il lavoro sulla qualità dell’ascolto favorito all’interfaccia di disclipline e linguaggi dotati ciascuno di una propria epistemologia nel dispiegarsi di una mente del gruppo dei terapeuti consente un contenimento che previene la contenzione come atto ultimo di fallimento di ogni relazione terapeutica. Nuovi luoghi di tirocinio, scambio, formazione si stanno costruendo per una pratica musicale di scambio irriverente e plurale!

Bion W. R., 1983, Seminari italiani, Roma, Borla Editore
Di Benedetto, 1991, Listening to the Pre-Verbal: The Beginning of the Affects, Rivista di Psicoanalisi, 37: 400-426
Di Benedetto A., 2000, Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. Angeli, Milano
Fornari F., 1984, Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano
Petrella F., 2014, Impromptus sull’improvvisazione: in musica, nel lavoro clinico”, Rivista di Psicoanalisi, LX