Semplici ed erbari

L’uomo ha attribuito da sempre poteri curativi e benefici alle erbe, agli arbusti e agli alberi che si sviluppano  nell’ambiente circostante, espressioni della forza vitale e quasi spirituale della natura.

Le erbe medicinali che maggiormente ricorrono negli erbari, sono la bardana, la camomilla, l’equiseto, la menta, l’ortica, la ruta, la salvia; tra gli alberi e gli arbusti sono presenti l’alloro, il biancospino, il gelso, il ginepro, il vischio, la rosa canina, il salice, il sambuco, il tiglio, la mandragola. Tutti sono utilizzati per ‘preparati galenici’, composti che prendono il nome da Galeno di Pergamo.

Gli erbari erano trattati di farmacologia (detti anche hortuli), generalmente illustrati, nei quali si trovavano la descrizione e le indicazioni relative all’impiego terapeutico di tutte le sostanze vegetali (i cosiddetti semplici) allora conosciute ed usate in medicina.

Prescindendo dalle grandi opere di Galeno sui semplici, il più famoso trattato di questo tipo fu quello di Dioscoride Pedanio, che costituì, in pratica, il modello al quale si rifecero, poi, tutti gli erbari medievali, compreso quello che in diverse redazioni fu costantemente tramandato ed è pervenuto sotto il nome di Apuleio Platonico.

Alla formazione di questi hortuli diedero un apporto notevolissimo gli Arabi, non solo facendo conoscere alla cultura latina il testo di Dioscoride, ma anche con l’aggiunta della loro vastissima esperienza in campo farmacologico.
Nel campo farmacologico l’apporto arabo fu fondamentale in quanto non si limitò ad ordinare, schematizzare e classificare ciò che la cultura classica aveva tramandato, né si ridusse ad una serie di prestiti lessicali (molte denominazioni di erbe e preparati, come elisir sono di origine araba), ma portò conoscenze veramente nuove, perfezionò e, spesso, corresse la tradizione, costituita soprattutto da Galeno, da Dioscoride e dal romano Plinio il Vecchio.
Altro notevole apporto fu quello dei monaci cristiani.
Dal canto loro i conventi ed i monasteri furono particolarmente attivi in questo campo. In essi, infatti, si coltivavano, come del resto ancora oggi, piccoli orti, nei quali i monaci non dedicavano le loro cure solo agli ortaggi ed alle verdure di uso commestibile, bensì anche a erbe medicinali o credute tali.

La tavola XVI dello Herbarii Amboinensis Auctuarium, pubblicato ad Amsterdam nel 1755.
Rappresenta la Rauwolfia che il testo descrive come Radix mustelae (Radice della faina, della donnola). I vegetali e gli animali provenienti dall’Estremo Oriente, come la Rauwolfia, dal Nuovo Mondo o dei quali da essi provenivano notizie o descrizioni più o meno esatte e attendibili, posero prepotentemente, a partire dal sec. XVI, il problema di una nuova classificazione, al quale darà soluzione l’opera di Linneo.
Il cosiddetto «secondo legno delle serpi» come appare a p. 259 del trattato di C. Acosta Della Historia, Natura, et Virtù delle droghe medicinali ecc. nell’edizione veneta del 1585.
Il legno delle serpi venne identificato dal Rupf con la Rauwolfia e, come questa, era ritenuto efficacissimo contro il morso dei serpenti.
Nel famoso Hortus sanitatis che venne più volte ristampato a Strasburgo, si mostra la chelidonia e se ne illustra la particolare efficacia contro le affezioni oculari dei rondinini.

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