Alcune considerazioni sulle riconfigurazioni del rapporto Sé-altro nell’iperconnessione

nell’immagine di copertina Myse en abyme da un’immagine di Raoul Iacometti, progetto *Hometohome, Monfest 2022, Casale Monferrato

DI PATRIZIA SANTINON, DIRETTORE SCIENTIFICO CENTRO STUDI MEDICAL HUMANITIES CURA E COMUNITÀ

La questione dell’iperconnesione appare tra le tracce proposte ai maturandi che hanno vissuto due anni di DAD a seguito della pandemia Covid-19.

Le iperconnessioni cui siamo soggetti nel quotidiano sembrano sostenere una sorta di psichismo much imbricate in cui il Sé e l’oggetto sono potenzialmente in costante contiguità psichica e condividono un’identità di intenti quasi adesiva.

Nella realtà virtuale possiamo assumere identità diverse secondo meccanismi di identificazione/ controidentificazione con la nostra identità non virtuale: possiamo intendere queste identità non tanto come espressione di vero/falso sé quanto piuttosto di altri-sé riprodotti da narcissistick, neologismo americano coniato per indicare i bastoni da selfie.

In considerazione dei cambiamenti delle attività online (fino a qualche tempo fa il setting online era fisso, l’individuo seduto al pc, le modalità online/ offline chiaramente identificabili e distinte) e del conseguente scivolamento dalla realtà online alla realtà offline e viceversa (prendo il mio esempio nello svolgimento di un’attività online – rispondere a un’email- mentre svolgo un’attività offline- camminare dal pronto soccorso a un altro reparto) possiamo immaginare questa psicodinamica dell’iperconnessione come un’area transizionale winnicottiana. Possiamo cioè intendere le iperconnessioni come una sorta di esperienza relazionale che accompagna e sostiene il soggetto nei suoi passaggi relazionali tra una modalità di stare con sé più soggettiva  (creata dal soggetto che può decidere che cosa fare, chi sentire, per quanto e quando farlo) e una più oggettiva in cui l’incontro con l’altro reale introduce di necessità delle delusioni, degli scarti relazionali, in definitiva la soggettività dell’oggetto altro.

Dal punto di vista del clinico a contatto con pazienti che trovano rifugio o sollievo nella realtà virtuale e qualche volta ne fanno richiesta con un trattamento esclusivo in remoto mi chiedo se parte di queste iperconnessioni non esprima anche difensivamente la creazione di una esperienza dissociativa transitoria che permette all’individuo di transitare temporaneamente dalla realtà non virtuale (quella degli oggetti reali) a quella online (non solo quella degli oggetti reali ma anche quelli degli oggetti soggettivi (Winnicott, 1971) su cui il soggetto ha pieno controllo, frutto della sua onnipotenza creativa  da cui deriva la possibilità di decidere quando connettersi e disconnetersi).

Mi vengono in mente i rifugi della mente (Steiner, 1993) come luoghi mentali ma anche comportamenti ripetitivi, riti e abitudini personali in cui ci si ritira per fuggire una realtà carica di angoscia (di morte) e di aggressività primaria (la realtà soggettiva che certamente poggia sempre più su una realtà di conflitto, di guerra, di malattia con proiezioni reciprocamente riverberanti).

Le iperconnessioni in questo senso funzionerebbero come una sorta di medicazione di un Sé danneggiato o in pericolo di frammentazione, posto di fronte alla necessità di affrontare vissuti conflittuali, abbandonici o deludenti rispetto alle relazioni oggettuali, insomma un tentativo di tenere a bada forme di sofferenza psichica che investono aree narcisistico-identitarie in uno spazio psichico differenziato che si contrappone a quello reale.

Cotroneo (2015) scrive a proposito dell’iperfotografia contemporanea: “La modernità narcisista è l’esempio di come lo scatto e il contenuto dello scatto non hanno più alcun significato. L’unica cosa significativa è il gesto: l’offerta della foto come suggello a un incontro, a una nuova conoscenza, alla riuscita di un affare (…). La foto ormai è indifferente alla verità e alla realtà”.

Musetti e altri (2022) hanno studiato la correlazione tra trauma precoce relazionale e utilizzo di internet verificando anche un’associazione positiva tra un attaccamento insicuro nell’infanzia e un uso problematico dei social network. In soggetti con storia relazionale precoce di questo tipo l’iperconnessione può alleviare temporaneamente il timore di essere (ancora) rifiutati.

In queste esperienze l’onnipotenza trionfa e tutto viene percepito come permesso e possibile con la messa in atto di meccanismi di difesa primitivi come il diniego: internet come altri oggetti verso cui si sviluppa una dipendenza svolgono una funzione di contenimento che il soggetto non può reperire come traccia mnesica per effetto di un deficit precoce di interiorizzazione o dell’assenza di una barriera protettiva che salvaguardi la psiche dall’eccesso di stimolazione.

I comportamenti internet-related sono molteplici e la questione potrebbe essere quella di individuare delle invarianti dell’iperconnesione che si configurano come modalità patologiche di rapportarsi all’oggetto in un continuum cha va dalla iperconnesione intesa come una delle varianti normative con cui il sé si rapporta all’oggetto alla dipendenza da internet patologica di cui sempre più spesso come genitori e come operatori ci troviamo ad occuparci.

 

Lo sguardo rovesciato, Roberto Cotroneo, De agostini Libri, Novara, 2015

Problematic social networking sites use and attachement: a systematic review

di Musetti A. et al, Computers in Human Behavior, Elsevier, 2022

Steiner, J. (1993) i rifugi della mente, trad it Bollati Boringhieri, Torino 1996

Winnicott, D.W., (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi, trad it Martinelli, Firenze

 

 

 

 

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