L’immagine del corpo umano

Il corpo è spesso paragonato a una macchina, eppure è molto di più. Funziona ventiquattr’ore su ventiquattro per decenni senza richiedere (in genere) manutenzione regolare né pezzi di ricambio, va ad acqua e a qualche altro composto organico, è morbido e alquanto gradevole, premurosamente mobile e duttile, si riproduce con entusiasmo, fa battute di spirito, prova affetto, apprezza un bel tramonto e una fresca brezza.

‘Lottatori’. Dettaglio degli affreschi nella Tomba degli Auguri a Tarquinia, VI secolo a.C.

L’immagine del corpo umano ha subito, nel corso dei secoli, trasformazioni radicali.

Forse è strano, ma il concetto stesso di “corpo” come un tutto unitario sia pure articolato e mobile si è formato, nella cultura occidentale, in epoca relativamente assai recente. Basti osservare che in Omero (IX-VIII secolo a.C.) non esiste il vocabolo che indica il “corpo”: per esprimere questo concetto nell’Iliade e nell’Odissea troviamo o mélea e gjia, ossia “membra e forti muscoli” o kbros, che propriamente significa “pelle” o dérma, che significa “figura”, mentre sôma, che più tardi significherà “corpo” in Omero indica solo il cadavere. Citando Cosmacini: «Omero è il nostro più antico testimone; i poemi omerici costituiscono i nostri archivi più antichi». Il grande poeta è «il rappresentante di una civiltà e di una cultura notevolmente avanzate, senza dubbio più avanzate di quelle esistenti al tempo della guerra di Troia». Nozioni anatomo-chirurgiche reperibili in Omero sono non meno avanzate di quelle di Ippocrate, il padre della medicina occidentale vissuto tre secoli dopo la data presunta della morte del grande poeta (o degli aedi autori e cantori del poema). Il linguaggio poetico di Omero è dunque, press’a poco, lo stesso linguaggio tecnico della téchne ippocratica.

Le raffigurazioni del corpo umano nelle pitture vascolari arcaiche presentano una visione dove sono enfatizzate le “membra e forti muscoli” ed è assente qualsiasi accenno al corpo come un tutto unitario, sia pure articolato.

Solo verso la seconda metà del V secolo a.C. si giunge ad una concezione del “corpo” come unità ed a questo soprattutto si rivolsero la pittura e la scultura greca e romana, nelle quali si ha quasi un’esaltazione del corpo umano a scapito della natura e dell’ambiente.

La lettura del corpo formulata nel corso dell’alto medioevo dagli autori di ambiente monastico ne fa un elemento oscuro, che appesantisce, o imprigiona, l’anima umana nel mondo terreno, conducendola verso il peccato. Si assiste a una sempre più accentuata stilizzazione del corpo umano ed alla quasi totale scomparsa del “vero” anatomico (il cui culto era culminato nella scultura ellenistica); ciò fu conseguenza soprattutto della generale squalifica del “corpo”  e del “corporeo”  in funzione di più alti valori spirituali e religiosi. Il dominio dell’anima sul corpo, dello spirituale sul materiale e della volontà sull’istintuale è il fine ultimo del buon cristiano, che, prima ancora dei segni della bontà divina, sembra portare in sé le tracce della colpa originaria, che ne fa un discendente di Adamo.

Il beato Basilio raffigurato in una icona russo-bizantina
Giunta Pisano, particolare del Crocifisso di Santa Maria degli Angeli
Montanes, San Gerolamo, chiesa dei Geronomiti di Santiponce presso Siviglia

L’attenzione per il corpo umano (e animale) rinasce con l’Umanesimo e trionfa con il Rinascimento ma più ancora nel Seicento (non a caso si assiste in questi secoli alla rinascita dell’anatomia) e si svilupperà sempre più vigorosamente nei secoli successivi mentre è proprio nel Settecento che nasce e si afferma l’anatomia plastica con i capolavori del Lelli e del Susini.

Jan Van Eyck, Adamo, particolare del Polittico dell’Agnello Mistico
Masaccio, Adamo, Particolare dela Cacciata dei progenitori, Chiesa del Carmine di Firenze
Sandro Botticelli, Illustrazione del canto XXXIII
dell’Inferno dantesco

Vesalio è conosciuto per la sua opera “De Humani corporis fabrica”, dato alle stampe a Basilea nel 1543: si tratta di uno dei testi anatomici più noti anche un pubblico non specialistico e uno di quelli che hanno incontrato maggiore fortuna nella storia della medicina. Infatti è apprezzato per la qualità delle sue immagini prodotte in ambiente veneziano nella stretta cerchia di Tiziano, che rappresentano una vera rivoluzione dal punto di vista teorico sia per quanto riguarda l’uso didattico per cui essi erano state pensate.

Pur riconoscendo Andrea Vesalio come il più grande anatomico del Rinascimento, va ricordato che Leonardo da Vinci (1452-1519) è stato iniziatore dello studio dell’anatomia e della fisiologia su base scientifica, per mezzo di ricerche originali e di dissezioni sul cadavere ed è stato anche il primo ad avere illustrato l’anatomia con disegni dal vero.

Andreae Vesalii Bruxellensis
Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images
images@wellcome.ac.uk
http://wellcomeimages.org
Andreae Vesalii Bruxellensis, scholae medicorum Patauinae professoris De humani corporis fabrica libri septem …
1543 Andreae Vesalii Bruxellensis, scholae medicorum Patauinae professoris De humani corporis fabrica libri septem …
Andreas Vesalius
Published: anno salutis reparatae 1543. Mense Iunio.
Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

Michelangelo, il Crepuscolo, Tomba di
Lorenzo de’ Medici nelle Cappelle medicee di Firenze

Fra Settecento e Ottocento si vedono risorgere una idealizzazione del corpo umano sui grandi modelli della scultura greca classica, per giungere, fra Ottocento e Novecento ad una netta e radicale distinzione fra la raffigurazione veristica del corpo umano (che, in generale, cadrà sotto il dominio della scienza e, in particolare, dell’anatomia) e la sua rappresentazione artistica che con la riproduzione del vero non ha più nulla a che fare e che offre una visione astratta, concettuale, spesso simbolica e comunque informale della figura umana.

Antonio Canova, Perseo, Vaticano
Pablo Picasso, particolare dei pannelli della Pace, Cappella di Vallauris

I tic e la triste storia di Tourette

La malattia dei tic e la storia di gilles de la tourette


La sindrome di Tourette è una malattia neuropsichiatrica (colpisce il cervello e il comportamento) caratterizzata dall’emissione, spesso combinata, di rumori e suoni involontari e incontrollati e da movimenti del volto e degli arti denominati tic. Di solito, compare durante l’infanzia e può persistere in età adulta. In molti casi, la sindrome di Tourette è a diffusione famigliare ed è spesso associata al disturbo ossessivo-compulsivo o al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD). Questo complesso disturbo neuropsichiatrico, in seguito noto come “sindrome di Tourette”, oggi è accettato come entità specifica dei disturbi del movimento.

La sindrome di Tourette prende il nome dal medico francese Georges Gilles de la Tourette che per primo, nel XIX secolo, ne descrisse i disturbi (sintomi) caratteristici. Nel corso dell’Ottocento, infatti, la neurologia si afferma come specialità medica ai confini tra istanze cliniche e neuropatologiche, da un lato, e confronto con gli sviluppi degli studi sperimentali sulla funzione nervosa, dall’altro.

Va ricordato che nel 1817 James Parkinson descrive la paralysisagitans, che porta il suo nome, e nel corso del secolo i neurologi si concentreranno su una serie di disturbi, tra cui l’epilessia, la sclerosi multipla, vari disturbi periferici e del midollo spinale e anche la sindrome di Tourette.

Georges Albert Edouard Brutus Gilles de la Tourette (1857-1904), neurologo francese e allievo di Jean Martin Charcot all’ospedale Salpêtrière di Parigi, ha ottenuto riconoscimento pubblico attraverso la sua descrizione della “Maladie des Tics”.

Gilles iniziò a lavorare sotto Charcot (1825-1893) all’ospedale Salpêtrière, un centro di ricerca intensiva con particolare attenzione all’isteria e all’ipnosi. La Francia ha visto infatti la nascita della neurologia clinica come disciplina separata con Jean Martin Charcot, primo medico ad occupare una cattedra designata di neurologia della storia neuropsichiatrica, nel 1884.

Tourette si interessò all’isteria, ma si dedicò anche a vari altri disturbi neuropsichiatrici e alla neuropatologia. Fu autore di numerosi lavori scientifici su epilessia, nevrastenia e mielite sifilitica. Sebbene abbia dedicato molto tempo alla sua ricerca neuropsichiatrica e alla pubblicazione di articoli su riviste mediche, la sua carriera non vide progressi significativi, nonostante il sostegno illimitato di Charcot. Tourette diede comunque diversi preziosi contributi alla medicina e alla letteratura: i suoi risultati più sostanziali si registrano nello studio dell’isteria, ma fu anche un neuropsichiatra competente con un particolare interesse per la terapia. Era un uomo dinamico e appassionatamente schietto la cui prodigiosa produzione letteraria rifletteva le sue inquiete compulsioni e gli interessi del suo mentore Charcot.

La sua carriera fu assai breve. Nel 1893 visitando una giovane paranoica, convinta di essere stata ipnotizzata, fu colpito da quest’ultima con tre colpi d’arma da fuoco, uno dei quali gli provocò un grave danno cerebrale. A causa di episodi di malinconia e fasi di deliri di grandezza e megalomania, oltre al dramma per l’evento che ebbe grande risonanza pubblica ai tempi, Gilles de la Tourette fu costretto a lasciare il suo incarico ospedaliero nel 1901.

Ricordato, oltre che per l’impegno professionale, per la sua attività letteraria e la personalità passionale e non conformista, trascorse gli ultimi anni della sua vita ricoverato in un ospedale psichiatrico.

 

 

https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/s/sindrome-di-tourette?highlight=WyJzaW5kcm9tZSIsImRpIiwic2luZHJvbWUgZGkiXQ==

https://www.biusante.parisdescartes.fr/histmed/image?anmpx29x3866

https://pubmed-ncbi-nlm-nih-gov.bvsp.idm.oclc.org/15168216/

 

Strumenti nella storia della medicina

La storia della medicina non è solo la storia delle idee, delle concezioni, delle dottrine e delle pratiche che si succedettero nel corso dei secoli, ma è anche la storia degli strumenti cui la medicina e i medici fecero ricorso e dei quali si servirono nelle varie epoche e nei vari periodi. Per strumenti si debbono intendere sia quelli ideati ed adottati per l’esercizio pratico della
professione, in particolare della chirurgia, sia quelli che di volta in volta, soprattutto a partire dal Seicento, si inventarono per compiere le indagini e le ricerche scientifiche.
Qui è possibile trovare alcuni approfondimenti sulla invenzione e storia del microscopio, mentre di seguito alcuni esempi di strumenti.

Distillatore con canna a serpentina. Ms. Aldini, Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Forno per “bagno Maria” Ms. Aldini Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Due tipi di distillatore a pellicano. Ms. Aldini Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Forno per distillazioni multiple Ms. Aldini Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Vasi refrattarì per la fusione dei metalli. Ms. Aldini Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Forno per la fusione e la lavorazione dei minerali.Ms. Aldini Biblioteca Universitaria di Pavia, XV secolo.
Strumenti chirurgici descritti e usati dall’arabo Albucasis. Ms. R 76 sup. della Biblioteca Ambrosiana, Milano.
Strumenti usati da Ambroise Paré. Dall’XI libro delle Opere chirurgiche, Parigi 1641.
Una serie di strumenti di ingrandimento ottico: microscopi composti e cimiteri degli insetti – Da Martin Froben Ledermüller, Gioie microscopiche dell’occhio e della mente, 1760-63.

 

La cauterizzazione

L’opera del Corpo ippocratico meglio conosciuta e più ampiamente diffusa durante tutto il Medio Evo greco e latino, ed ancor oggi una delle più meritamente famose sono gli Aforismi

L’ultimo aforismo dell’ultima sezione dice: «Le malattie che i farmaci non riescono a curare sono curate dal ferro (bisturi). Quelle che il ferro non riesce a curare vengono curate col fuoco. Quelle che il fuoco non cura si debbono giudicare incurabili». Confortati dall’autorità di Ippocrate tutti i medici dall’antichità al Medio Evo e dal Medio Evo al Rinascimento fecero abbondantissimo ricorso al fuoco, ossia, appunto, alla c., la cui tecnica era stata portata ad un grado eccelso di perfezione soprattutto dagli Arabi.

Il divieto imposto dal Corano di incidere corpi ed il quasi connaturato rifiuto del contatto con il sangue, tipico della cultura islamica, fecero sì da un lato che nel campo dell’anatomia e della chirurgia con il ferro la medicina araba non desse praticamente nessun apporto, limitandosi a ripetere quanto ereditato dalla medicina greca; dall’altro che gli Arabi sviluppassero, appunto, la cauterizzazione, ossia un tipo di intervento chirurgico che soddisfacesse contemporaneamente alle tre esigenze fondamentali: curare la malattia, non tagliare con il ferro e non entrare, quindi, in contatto con il sangue. Dei tre scopi per i quali si ricorreva alla cauterizzazione, il primo, il revulsivo, mirava ad ottenere un aumento dell’afflusso del sangue verso il punto cauterizzato (ciò accentuava i processi reattivi e realizzava una decongestione degli organi interni sotto la zona trattata col fuoco); il secondo, la cosiddetta dieresi incruenta, ossia divisione, apertura senza spargimento di sangue consentiva, tramite un cauterio a forma di coltello, di dividere i tessuti come con un bisturi, ma tramite un’incisione senza versamento di sangue e la si usava, quindi, nella cura di favi, flemmoni, ecc.; il terzo, l’emostatico, mirava ad arrestare le emorragie, soprattutto provocate da ferite. Mentre per il primo scopo la cauterizzazione è attualmente usata solo nell’ambito della veterinaria, ad essa si fa ancora ricorso nel secondo e nel terzo caso, sia pur ricorrendo a cauteri ben più moderni.

Nell’immagine: Un medico militare esegue la cauterizzazione di una ferita alla coscia di un soldato. Da notare la forma particolare del cauterio a placca, mentre nel braciere se ne sta scaldando un altro a forma di piccola ascia. La tavola illustra un passo dei Tacuina sanitatis (Taccuini della salute) dell’arabo ibn-Butlan nell’edizione francese del 1532.

Alcune considerazioni sulle riconfigurazioni del rapporto Sé-altro nell’iperconnessione

nell’immagine di copertina Myse en abyme da un’immagine di Raoul Iacometti, progetto *Hometohome, Monfest 2022, Casale Monferrato

DI PATRIZIA SANTINON, DIRETTORE SCIENTIFICO CENTRO STUDI MEDICAL HUMANITIES CURA E COMUNITÀ

La questione dell’iperconnesione appare tra le tracce proposte ai maturandi che hanno vissuto due anni di DAD a seguito della pandemia Covid-19.

Le iperconnessioni cui siamo soggetti nel quotidiano sembrano sostenere una sorta di psichismo much imbricate in cui il Sé e l’oggetto sono potenzialmente in costante contiguità psichica e condividono un’identità di intenti quasi adesiva.

Nella realtà virtuale possiamo assumere identità diverse secondo meccanismi di identificazione/ controidentificazione con la nostra identità non virtuale: possiamo intendere queste identità non tanto come espressione di vero/falso sé quanto piuttosto di altri-sé riprodotti da narcissistick, neologismo americano coniato per indicare i bastoni da selfie.

In considerazione dei cambiamenti delle attività online (fino a qualche tempo fa il setting online era fisso, l’individuo seduto al pc, le modalità online/ offline chiaramente identificabili e distinte) e del conseguente scivolamento dalla realtà online alla realtà offline e viceversa (prendo il mio esempio nello svolgimento di un’attività online – rispondere a un’email- mentre svolgo un’attività offline- camminare dal pronto soccorso a un altro reparto) possiamo immaginare questa psicodinamica dell’iperconnessione come un’area transizionale winnicottiana. Possiamo cioè intendere le iperconnessioni come una sorta di esperienza relazionale che accompagna e sostiene il soggetto nei suoi passaggi relazionali tra una modalità di stare con sé più soggettiva  (creata dal soggetto che può decidere che cosa fare, chi sentire, per quanto e quando farlo) e una più oggettiva in cui l’incontro con l’altro reale introduce di necessità delle delusioni, degli scarti relazionali, in definitiva la soggettività dell’oggetto altro.

Dal punto di vista del clinico a contatto con pazienti che trovano rifugio o sollievo nella realtà virtuale e qualche volta ne fanno richiesta con un trattamento esclusivo in remoto mi chiedo se parte di queste iperconnessioni non esprima anche difensivamente la creazione di una esperienza dissociativa transitoria che permette all’individuo di transitare temporaneamente dalla realtà non virtuale (quella degli oggetti reali) a quella online (non solo quella degli oggetti reali ma anche quelli degli oggetti soggettivi (Winnicott, 1971) su cui il soggetto ha pieno controllo, frutto della sua onnipotenza creativa  da cui deriva la possibilità di decidere quando connettersi e disconnetersi).

Mi vengono in mente i rifugi della mente (Steiner, 1993) come luoghi mentali ma anche comportamenti ripetitivi, riti e abitudini personali in cui ci si ritira per fuggire una realtà carica di angoscia (di morte) e di aggressività primaria (la realtà soggettiva che certamente poggia sempre più su una realtà di conflitto, di guerra, di malattia con proiezioni reciprocamente riverberanti).

Le iperconnessioni in questo senso funzionerebbero come una sorta di medicazione di un Sé danneggiato o in pericolo di frammentazione, posto di fronte alla necessità di affrontare vissuti conflittuali, abbandonici o deludenti rispetto alle relazioni oggettuali, insomma un tentativo di tenere a bada forme di sofferenza psichica che investono aree narcisistico-identitarie in uno spazio psichico differenziato che si contrappone a quello reale.

Cotroneo (2015) scrive a proposito dell’iperfotografia contemporanea: “La modernità narcisista è l’esempio di come lo scatto e il contenuto dello scatto non hanno più alcun significato. L’unica cosa significativa è il gesto: l’offerta della foto come suggello a un incontro, a una nuova conoscenza, alla riuscita di un affare (…). La foto ormai è indifferente alla verità e alla realtà”.

Musetti e altri (2022) hanno studiato la correlazione tra trauma precoce relazionale e utilizzo di internet verificando anche un’associazione positiva tra un attaccamento insicuro nell’infanzia e un uso problematico dei social network. In soggetti con storia relazionale precoce di questo tipo l’iperconnessione può alleviare temporaneamente il timore di essere (ancora) rifiutati.

In queste esperienze l’onnipotenza trionfa e tutto viene percepito come permesso e possibile con la messa in atto di meccanismi di difesa primitivi come il diniego: internet come altri oggetti verso cui si sviluppa una dipendenza svolgono una funzione di contenimento che il soggetto non può reperire come traccia mnesica per effetto di un deficit precoce di interiorizzazione o dell’assenza di una barriera protettiva che salvaguardi la psiche dall’eccesso di stimolazione.

I comportamenti internet-related sono molteplici e la questione potrebbe essere quella di individuare delle invarianti dell’iperconnesione che si configurano come modalità patologiche di rapportarsi all’oggetto in un continuum cha va dalla iperconnesione intesa come una delle varianti normative con cui il sé si rapporta all’oggetto alla dipendenza da internet patologica di cui sempre più spesso come genitori e come operatori ci troviamo ad occuparci.

 

Lo sguardo rovesciato, Roberto Cotroneo, De agostini Libri, Novara, 2015

Problematic social networking sites use and attachement: a systematic review

di Musetti A. et al, Computers in Human Behavior, Elsevier, 2022

Steiner, J. (1993) i rifugi della mente, trad it Bollati Boringhieri, Torino 1996

Winnicott, D.W., (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi, trad it Martinelli, Firenze