Il dolore rappresenta il mezzo con cui l’organismo segnala un danno tissutale. Secondo la definizione della IASP (International Association for the Study of Pain – 2020) e dell’Organizzazione mondiale della sanità, il dolore «è un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a (o simile a quella associata a) un danno tissutale potenziale o in atto».

Non c’è vita animale senza dolore, ma nella specie umana esso assume significati e implicazioni indissociabili dal sentimento di sé e dal significato stesso di esistere. Il dolore è veicolo di segnali di pericolo, ha utilità protettiva nei confronti dell’animale, segno di allarme in molte circostanze.
Il dolore ha avuto una funzione fondamentale nella sopravvivenza dell’individuo specialmente animale, ma anche umano, come messaggio della necessità di intraprendere una reazione necessaria a seguito di un’aggressione o di un danno all’integrità fisica. Per questo, i recettori del dolore sono in grado di identificare vari tipi di stimoli pericolosi che siano meccanici, chimici, termici. Non a caso, i recettori del dolore sono presenti praticamente nella totalità degli organismi viventi non vegetali, proprio perché durante la selezione naturale la loro utilità ne ha preservato la funzione.

Le espressioni fisiche della sofferenza, nella forma della reazione istintiva agli stimoli dolorosi, hanno spinto gli artisti del passato a un particolare interesse verso lo studio della fisionomica, per evidenziare i moti dell’animo, esprimendoli con le pieghe del volto e le posture del corpo.
Lo stesso Leonardo Da Vinci sosteneva che “il buon pittore ha da dipingere due cose principali, cioè l’uomo e il concetto della mente sua. Il primo è facile, il secondo è difficile, perché si ha a figurare con gesti e movimenti delle membra: e questo è da essere imparato dai muti, che meglio li fanno che alcun’altra sorte di uomini”: e ancora “farai le figure in tale atto il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo, altrimenti la tua arte non sarà laudabile”
Parlando di dolore nell’arte, il pensiero vola diretto alla produzione artistica, di forte stampo autobiografico, della messicana Frida Kahlo: lei dedicò moltissimi dipinti alle varie tematiche dolorose che permearono la sua difficile e breve esistenza, che si snodò tra problemi di salute (quindi sofferenze fisiche) e disagi sociali e familari (quindi sofferenze psicologiche).

Proprio poiché la sofferenza è parte della vita, diversi altri artisti hanno ritratto soggetti in preda a dolori fisici di differenti intensità, condizione facilmente individuabile e riconoscibile, grazie a mirabili e attenti trat-ti fisionomici che rasentano, in molti casi, veri e propri virtuosismi artistici; tra queste, forse la più nota è l’opera di Caravaggio (Ragazzo morso da un ramarro, 1595-1600), che mostra il preciso istante in cui un ragazzo viene morso da un animale. Il movimento improvviso del giovane, certamente studiato dal vero, consiste nell’allontanamento del braccio da uno stimolo doloroso acuto, che si percuote lungo tutti gli arti superiori, con entrambe le mani in contrazione, giungendo fino alla spalla in una posa del tutto innaturale, in condizioni normali. Tale fenomeno, descritto magistralmente dall’artista alla fine del Cinquecento, fu definito scientificamente soltanto a fine Ottocento, con il nome di “arco riflesso”: uno stimolo doloroso intenso, come una puntura o una bruciatura, ne provoca il repentino allontanamento; il gesto esprime un riflesso nervoso che avviene senza coinvolgere i centri nervosi superiori o la corteccia cerebrale, dunque indipendentemente dalla coscienza del soggetto, involontario.
La scoperta dell’arco riflesso, responsabile di questo meccanismo di difesa, deriva dagli studi di fisiologia del sistema nervoso, compiuti tra XIX e XX secolo, contribuendo alla nascita della neurologia moderna.

Molto più drammatico e teatrale si presenta il dipinto di Gaspare Traversi (L’operazione, 1753-54), artista napoletano che fa emergere le emozioni anche dal sangue che scorre a rivoli durante un intervento chirurgico, la cui descrizione non ha alcuna pretesa di documentazione scientifica, quanto, piuttosto, di rappresentazione delle diverse fisionomie espressive dei protagonisti: il malato mostra evidenti segni di estremo dolore, attraverso una mimica facciale molto accentuata; le mani serrate e le braccia contratte, a contrastare l’energico gesto dell’assistente del chirurgo, che cerca di tenere termo il paziente.

Un altro esempio di rappresentazione – più o meno evidente – del dolore si torva nell’opera “La cura di Innocenzo di Cartagine: le preghiere di sant’Agostino d’Ippona e altri salvano Innocenzo da un doloroso intervento chirurgico”. Pittura a olio secondo Schelte Bolswert. Quest’opera raffigura un evento a Cartagine nel 388, ampiamente descritto da sant’Agostino d’Ippona nel ‘De civitate dei’, libro XXII, capitolo 8, dove discute la continuazione dei miracoli nella sua stessa epoca. Il malato è Innocenzo di Cartagine, ex avvocato della viceprefettura di Cartagine, in cura per diverse fistole anali (“curabatur a medicis fistulas quas numerosas atque perplexas habuit in posteriore et ima corporis parte”). Tuttavia, per motivi di decoro, l’artista lo mostra invece con una gamba fasciata che il chirurgo si aspetta di amputare con una sega.