Evoluzione dell’oculistica a fine Ottocento

Intorno al 1870 l’oculistica fece notevoli progressi ed incominciò a rendersi autonoma, staccandosi dalla chirurgia, sia come materia d’insegnamento universitario sia nella pratica ospedaliera. Una grande parte del progresso compiuto dall’oculistica in questo secolo derivò dall’invenzione dell’oftalmoscopio realizza ta da E. Helmholtz (1821-1895) nel 1851. Fu questo il primo strumento che permise di effettuare l’endoscopia di un organo vivente. Da allora fu possibile osservare direttamente le lesioni della retina, della coroide e del nervo ottico, nonché le opacità delle zone trasparenti interne dell’occhio. Questo esame si rivelò di un’importanza capitale, non solo per la diagnosi delle malattie oculari, ma anche per definire la diagnosi e seguire attraverso il controllo oculare l’evoluzione di malattie generali, in particolare di quelle neurologiche ed endocrinologiche. A questa scoperta fece seguito, a breve termine, la pubblicazione di atlanti e trattati che illustravano e classificavano le malattie oculari in base al loro aspetto oftalmoscopico. L’oftalmoscopio di Helmholtz, pur così utile, presentava però l’inconveniente di dare un’immagine rovesciata della retina. A questo inconveniente rimediarono dapprima (1914-1918) May e successivamente (1930-1931) Gullstrand e Thörner, che misero a punto oftalmoscopi che danno un’immagine diritta della retina. Nel 1911 A. Gullstrand ideò la lampada a fessura e il bio microscopio, indispensabile per l’esame delle membrane esterne dell’occhio e delle zone trasparenti. Nel 1872 H. Sneller (1834-1908) fece costruire il primo tonometro per la misurazione della pressione endoculare, rilievo indispensabile per scoprire e seguire l’evoluzione del glaucoma. Ma solo a partire dal 1905, con l’apparecchio ideato da Schötz, la tonometria entrò nella pratica corrente. Parallelamente allo studio del globo oculare, nel corso del 1800 e nei primi decenni del 1900 si assistette allo sviluppo di studi sempre più precisi sulla funzione visiva. Nel 1854 F. von Jaeger elaborò una scala visiva da lontano con caratteri progressivamente crescenti, mentre H. Parinaud (1844-1905) elaborò la scala per la visione da vicino. Javal ideò l’optometro, apparecchio che serve per la ricerca dell’astigmatismo. L’esame del campo visivo, importante non solo per l’oculistica ma anche per la neurologia, venne effettuato dapprima (seconda metà del 1800) ricorrendo all’arco perimetrico di E. Landolt (1846-1926), quindi (prima metà del 1900) al perimetro a cupola di Goldmann. La visione dei colori venne studiata dapprima mediante matasse di lana colorata secondo il metodo ideato da A. Holmgren (1831-1897); solo attorno al 1930, però, con l’introduzione delle tavole isocromatiche di Ishi-Ara, fu resa relativamente facile e precisa l’individuazione di questi disturbi della vista. Lo studio dei problemi relativi al movimento dei globi oculari, ed in particolar modo dello strabismo, incominciò ad essere praticato nella prima metà del 1800 con alcuni tentativi chirurgici, fra i quali si ricorda l’operazione ideata da J.F. Dieffenbach (1792-1847), consistente nella sezione dei muscoli oculo-motori. 

Verso la fine del 1870 e l’inizio del 1900, la conoscenza sempre più precisa della fisiologia della motilità oculare spinse a tentare di migliorare o guarire gli strabici con un trattamento incruento basato sulla rieducazione motoria (Javal, Remy, Cantonnet). Questi tentativi erano stati ormai quasi dimenticati quando, negli Stati Uniti, negli anni 40, gli esercizi di rieducazione degli strabici assunsero grande importanza e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, nacque l’ortottica.

Occhio d’artista

come appare il mondo quando la visione dell’artista si deteriora?

Gli occhi di un artista messi al servizio dell’arte possono rivelarci un mondo indicibile che è comunque molto presente intorno a noi.

Ma come appare questo mondo, questo universo interiore quando la visione dell’artista si deteriora? Quando incontra la malattia e quando l’astrazione si fonde con l’impressione? La “malvisione” può influenzare l’opera di un pittore?

A questa domanda ha provato a rispondere il professor Cesare Fiore nel libro ‘L’occhio dell’artista’: già professore ordinario di Oculistica all’Università di Perugia e deceduto nel 2018 poco dopo la presentazione del libro, nel volume il prof. Fiore analizza le opere di grandi pittori ai quali era stata documentata una malattia degli occhi, per mettere in luce come la forza artistica dei vari pittori non era stata limitata dalla funzione visiva precaria. Una domanda, come indicato nella descrizione del libro, a cui «si può rispondere soltanto se si è in possesso di informazioni sugli occhi dell’artista. La valutazione condotta esclusivamente a partire dai dipinti ci espone al rischio dell’errore e a sottovalutare i temi fondamentali del genio e della libertà creativa. Nel libro, attraverso uno studio della letteratura clinica e delle evidenze documentali, si prova a realizzare un’analisi peculiarissima della pittura europea a partire dal XV secolo: una vera e propria “lettura oftalmologica” della storia dell’arte».

L’argomento è affrontato anche in un articolo pubblicato su Nature nel 2015 firmato dal prof. Michael Marmor, che ha esaminato la visione normale e le patologie degli occhi in relazione all’arte. Scrive Marmor: «L’oftalmologia non può spiegare l’arte, ma la visione è uno strumento per gli artisti e le sue caratteristiche normali e anormali possono influenzare ciò che un artista può fare. La retina codifica per il contrasto, e l’impatto di questo è evidente in tutta la storia dell’arte dalla pittura a pennello asiatica, al chiaroscuro rinascimentale, all’Op Art. L’arte esiste e può ritrarre il giorno o la notte, solo a causa del modo in cui la retina si adatta alla luce».

Tornando alla domanda inziale, ossia di cosa rimane del pittore quando viene privato della sua essenza?
Una delle storie maggiormente conosciute è quella della cecità di Claude Monet, (al link qui un approfondimento della sua vicenda) il cui lavoro è stato analizzato con attenzione da Marmor, che è giunto alla conclusione che la perdita della forma, fino a sconfinare nell’astrattismo, evidenziabile in alcune opere, fosse legata all’avanzamento della malattia: Monet, è risaputo da numerose fonti, era affetto da cataratta bilaterale, che modifica la percezione dei colori e la nitidezza dell’immagine.

«È pericoloso diagnosticare la malattia degli occhi dal lavoro di un artista, perché gli artisti hanno la licenza per creare come desiderano. El Greco non era astigmatico; Monet non era miope; Turner non aveva cataratta. Ma quando la malattia degli occhi è documentata, gli effetti possono essere analizzati. Gli artisti daltonici limitano la loro tavolozza alle ambra e al blu ed evitano i verdi. Le dense cataratte marroni distruggono le distinzioni di colore e le tele tardive di Monet (prima dell’intervento chirurgico) mostravano strani e intensi usi del colore». Michael Marmor

Analizzando l’opera di Monet, Marmor fa notare come nel decennio 1912-22, con l’avanzare della patologia, i dipinti abbiano acquisito toni sempre più bruni e scuri.

Claude Monet_-The Japanese Footbridge

Emblematica l’opera Il ponticello giapponese, 1920-22 nella quale risulta evidente che i colori sono scuri e tendenti al giallo, anziché variopinti come nelle opere precedenti: Monet, a partire dal 1890, inizia a dedicarsi al tema del ponte giapponese che aveva fatto costruire nel suo giardino a Giverny, realizzando una serie di opere molto simili tra loro, ma che nei primi esempi presentano luminosità e colori naturalistici (verde di erba e foglie, colori pastello dei fiori), mentre gli esemplari più tardi mostrano turbinii densi e pennellate di colore che fanno perdere la definizione della forma del ponte; anche la tavolozza appare modificata e virata verso tonalità più calde, come i bruni, i gialli e gli aranci. Questo è proprio uno dei sintomi della cataratta, ossia l’ingiallimento dei colori, percepito dall’occhio malato.

Dettagli di otto diversi dipinti di Monet raffiguranti ninfee nella sua tenuta a Giverny
(tratto dall’articolo di M Marmor)

La perdita della percezione del colore ha creato in Monet un grave problema: il suo obiettivo in pittura era quello di evidenziare le variazioni tra le ore del giorno, le stagioni, l’illuminazione e le ombre; queste sfumature sono diventate quasi impossibili durante gli anni precedenti all’intervento di cataratta.

(Continua)

Immagine di copertina: L’occhio, Salvador Dalì, 1945

https://www.nature.com/articles/eye2015197 

Painter’s Biggest Fear: The Blindness of Claude Monet
https://www.ibs.it/occhio-dell-artista-lettura-oftalmologica-libro-cesare-fiore/e/9788889024867?lgw_code=1122-B9788889024867&gclid=Cj0KCQjwgMqSBhDCARIsAIIVN1XAPDb6lmC6NdTG4BOq-SxBbKhAr10itRx1Yd71Aw3q7dyYAjWME6YaAlgjEALw_wcB

 

L’Istituto Pasteur


Sostenuto da donazioni pubbliche in tutto il mondo, l’Istituto Pasteur è stato fondato nel 1887, finalizzato allo sviluppo della ricerca di base e delle sue applicazioni.
Prende il nome da Louis Pasteur, fondatore e primo direttore, che mise a punto il primo vaccino contro la rabbia nel 1885.
Pasteur (1822-1895) attirò medici e collaboratori scientifici di livello mondiale per aiutarlo a sconfiggere le malattie: le sue scoperte hanno portato profondi cambiamenti nella medicina, dallo sviluppo della chirurgia antisettica all’istituzione della batteriologia e della preparazione vaccinale.

Il laboratorio era un potente simbolo della medicina moderna a cavallo del XX secolo, e i laboratori più famosi al mondo erano quelli degli Istituti Pasteur.

Questa fotografia è stata scattata intorno al 1905 di un laboratorio presso l’Istituto Pasteur di Parigi. Mostra diversi componenti significativi del laboratorio di ricerca, in particolare gli animali (conigli e cavie) utilizzati, che riproducevano una malattia negli animali per isolare l’organismo e creare un vaccino. Per ritrarre i risultati e il potenziale medico, l’Istituto fece scattare fotografie dei loro vari laboratori, istituzioni e centri medici in tutto il mondo.

 

L’Istituto Pasteur ha istituito centri in tutto il mondo e ha guidato gli sforzi per il controllo delle malattie. Nel corso degli anni, la ricerca ha contribuito a controllare tifo, tetano, influenza, difterite, colera, malaria, febbre gialla, poliomielite, peste bubbonica, anchilostoma, tubercolosi e vaiolo. Negli anni ’80, è stato scoperto e isolato la causa dell’AIDS, il virus dell’immunodeficienza umana: HIV1 nel 1983 e HIV2 nel 1985. Recentemente, l’Istituto ha studiato e studiato l’efficacia del vaccino SARS-COV-2 e COVID-19.