L’Oculistica incominciò a diffondersi a Roma verso il I secolo a.C., come viene attestato da un certo numero di stele funerarie in cui sono menzionati i “medici oculari” e i “chirurghi oculari”, inizialmente distinti, poi riuniti in una unica figura. Il V e il VII libro del “De Medicina” di Celso sono dedicati all’Oculistica e vengono descritte trentasei malattie, tra cui congiuntiviti, ulcere, tumori – è stato Celso ad individuare l’epitelioma delle palpebre – la cataratta e altre patologie.
Si tratta di una disciplina specifica della medicina di cui abbiamo narrato l’evoluzione nei secoli, a partire appunto dall’antica Roma passando dal Rinascimento per arrivare al Settecento con la celebre figura di Antonio Scarpa.
Da sempre si è cercato di individuare metodi risolutivi per migliorare il più possibile le condizioni del paziente affetto da patologie all’occhio, malattie che sono state rappresentate nella storia dell’arte poiché molto diffuse tra le varie popolazioni di tutte le epoche storiche.

Gli occhi sono sempre stati considerati preziosi nella storia dell’umanità, poiché permettono di vedere ciò che ci circonda, individuare e selezionare il cibo, accorgersi e quindi evitare pericoli; ne consegue che, fin dalle civiltà più antiche, l’uomo abbia cercato di preservare gli occhi da malattie e inconvenienti vari. Il kajal (o khol) costituiva una cura naturale per gli occhi, antica cinquemila anni, utilizzata dai popoli dei luoghi più assolati e caldi del mondo, quindi l’India, l’Arabia, e l’Africa (in particolar modo in Egitto). Questo rimedio si preparava in casa ogni giorno, con un piccolo rito, impastando ingredienti naturali con proprietà idratanti, lenitive, antibatteriche, decongestionanti e antinfiammatorie; veniva posto sulle rime oculari e sulle palpebre di uomini, donne e bambini, per proteggere, idratare e disinfettare gli occhi. Gli abitanti dell’antico Egitto erano particolarmente dediti alla cura del proprio corpo, sia sotto il profilo igienico, che estetico: il kajal nasce dapprincipio con scopi sanitari, il lato estetico della sua applicazione venne aprezzato nel tempo, quando gli Egizi inventarono la cosmesi, ornandosi lo sguardo con eyeliner e ombretti a base di khol e notarono che il trattamento rendeva lo sguardo più ampio e profondo.

La condizione più riscontrabile in opere d’arte è quella della cecità, ossia la forma più pronunciata di disabilità oculare, con una mancanza totale o parziale della percezione visiva di uno o di entrambi gli occhi.

Tra i dipinti più noti vi è quello del francese George de la Tour (Suonatore di ghironda, 1620), il quale, con un realismo crudo e impietoso, ritrae il ghigno deformante che attraversa il viso di questo musicista cieco, intento a suonare uno strumento tipico degli artisti ambulanti, la ghironda.

Anche il belga Josephus Dyckmans (Il mendicante cieco, 1852) testimonia come molto spesso persone affette da cecità, colpite da grave disabilità, fossero destinate a vivere ai margini della società, costrette quindi all’elemosina o a guadagnarsi da vivere come musicisti di strada: il tema iconografico del “mendicante cieco” è stato assai sfruttato dagli artisti sei—settecenteschi per riscattare e documentare, almeno attraverso l’arte, una classe sociale debole, povera e oppressa.
Altra patologia visiva facilmente riscontrabile soprattutto nella ritrattistica, è lo strabismo, disturbo oculistico caratterizzato da una deviazione degli assi visivi, causata da un malfunzionamento dei muscoli oculari; la presenza di questa problematica oftalmica nell’arte è legata all’esigenza, in auge in tutte le epoche, di acquisire documenti iconografici sui personaggi storici. I vari soggetti, appartenenti a tutte le classi sociali, uomini e donne, ecclesiastici, guerrieri, sovrani e persone del popolo, venivano ritratti fedelmente e con realismo, indipendentemente dai difetti fisici.

Esistono quindi numerosi ritratti grazie ai quali oggi sappiamo chiaramente che gli effigiati erano affetti da strabismo: tra questi, ad esempio, Cosimo de’ Medici, raffigurato da Agnolo Bronzino (Ritratto Cosimo de’ Medici in armatura, 1545), oppure il Cardinale Tommaso Inghirami, dal pennello di Raffaello Sanzio (Ritratto del Cardinale Tommaso Inghirami, 1514) : entrambi i soggetti manifestano, in un solo occhio, uno strabismo divergente, di entità differente, e più accentuata nel Cardinale.

Per quanto concerne, invece, i difetti di rifrazione, per molti secoli non ci fu soluzione, fino a che si pensò alla fabbricazione di lenti che correggessero il problema e permettessero una visione migliore: sebbene primissimi e rudimentali prototipi di lenti vennero approntati nell’antichità romana, grazie a pietre e vetri, la svolta ci fu nel XIII secolo, quando alcuni monaci italiani svilupparono una lente semisferica fatta di cristallo di rocca e quarzo, in grado di ingrandire le lettere se posizionata su una pagina scritta. Questa ”pietra da lettura” fu una benedizione per molti monaci anziani che soffrivano di presbiopia e migliorò notevolmente la qualità della loro vita; mentre le pietre da lettura riuscivano ad aiutare molte persone nella vita di ogni giorno, erano ancora lontane dall’essere dei veri e propri occhiali come li conosciamo oggi.
L’innovazione arrivò attorno al 1280, presso le vetrerie dell’isola di Murano, a Venezia, ove i vetrai realizzarono qualcosa di portentoso: per la prima volta riuscirono a molare due lenti convesse e a incastonarle in due cerchi di legno uniti da un segmento e un rivetto: questo primo prototipo non presentava alcun elemento che lo tenesse fissato alla testa del portatore, ciononostante, in quell’epoca erano il miglior ausilio desiderabile per il comfort visivo; per poter vedere meglio, chi indossava questi “occhiali a rivetto” doveva tenerli con le mani fermi davanti agli occhi, quindi erano utilizzati solo al bisogno, poiché non vi era ancora modo di portarli con continuità durante il giorno.
Con il passare dei secoli, i maestri vetrai sostituirono il segmento degli occhiali a rivetto con un arco, e il materiale della montatura passò dal legno, cuoio, tartaruga, stecche di balena e osso, al metallo, il quale, essendo più elastico, con l’opportuna sagomatura del ponte permise di ottenere occhiali che si reggessero da soli sul naso. L’esigenza di occhiali “autoreggenti” si fece sempre più impellente con l’invenzione della stampa (1455) e il conseguente incremento esponenziale dell’editoria, che diede un grande impulso anche all’ottica.
Dopo vari tentativi e ricerche atte a trovare la modalità per fissare stabilmente gli occhiali al volto, e poterli indossare continuativamente, finalmente, grazie all’ottico inglese Edward Scarlett (1688—1743), nel 1727 furono dotati di aste che premevano sulle tempie, dando origine ai cosiddetti “occhiali da tempia”.
L’invenzione degli occhiali è inserita tra le acquisizioni più importanti dell’umanità, assieme a quella della ruota e alla scoperta del fuoco; nell’arte più antica, naturalmente, non compaiono occhiali, accessorio che divenne però ben presto elemento per delineare la figura dello studioso, del medico e del chirurgo, ma anche degli apostoli e dei profeti, a indicare saggezza, vecchiaia e approfondimento.

L’affresco di Tomaso da Modena (Cardinale Ugo di Provenza, 1352), appartenente a un ciclo che ritrae quaranta frati domenicani illustri, intenti in attività intellettuali quali lettura, scrittura, riflessione e trascrizione di testi, è ritenuta la prima raffigurazione nella storia dell’arte degli occhiali. L’opera, datata 1352, quindi circa settant’anni dopo l’invenzione dello strumento visivo, ci mostra il primo modello a rivetto, con perno centrale che permetteva di richiudere gli occhiali facendo scorrere una lente sull’altra. Appare curioso come il soggetto ritratto, il Cardinale Hugues de Saint—Cher, nominato nel 1244, abbia entrambe le mani sul tavolo: non sappiamo quindi come facessero gli occhiali a reggersi sul suo volto, ma è possibile che si tratti di una raffigurazione di fantasia e l’artista abbia sottovalutato questo fattore.
Qui alcune tra le opere più note raffiguranti gli occhiali a rivetto


