Questa fotografia, risalente circa al 1890, ritrae una “donna nervosa invalida” su una sedia a rotelle con un’infermiera che le prende il polso.
Nel 1869, George Miller Beard (1839-1883) modificò la direzione della teoria e della cura psichiatrica introducendo il termine “nevrastenia” per descrivere una condizione di esaurimento nervoso con una serie di segni di affaticamento fisico e mentale.
Dal 1870 al 1930, questa ampia designazione ha potuto comprendere una sconcertante serie di segni e sintomi, inclusi disturbi non psicotici e funzionali, da classificare facilmente come nevrastenia.
Beard scrisse che «un segno essenziale della condizione è la fatica e la propensione ad essa» e che «la stanchezza è la principale lamentela di coloro che sono inflitti».
Le pressioni dell’industrializzazione e il ritmo accelerato della civiltà moderna sono stati considerati come fattori contribuenti. La maggior parte delle persone afflitte erano donne che vivevano in città, appartenenti alla classe media e alta a cui era permesso ritirarsi dagli obblighi di sesso, lavoro o doveri familiari quando veniva diagnosticata una nevrastenia.
Silas Weir Mitchell, (1829-1914), il neurologo pioniere di Filadelfia, sviluppò la “cura del riposo”, che prevedeva soggiorni prolungati a letto supervisionati per rimuovere il paziente dallo stress e dalle responsabilità della vita quotidiana. I sanitari divennero il principale mezzo di cura per i ricchi; alcuni hanno trascorso anni a letto.
Negli anni quaranta del ventesimo secolo, la nevrastenia come diagnosi specifica è scomparsa.
Pott, chirurgo e primo a dimostrare la relazione tra ambiente e cancro
Percival Pott è stato senza dubbio una delle figure di primo piano fra i chirurghi del XVIII secolo e primo ad identificare un rapporto tra l’esposizione degli spazzacamini alla fuliggine e il carcinoma a cellule squamose dello scroto: Pott fu così uno dei primi medici a descrivere le cosiddette patologie di origine occupazionale, ossia quelle che colpiscono solo alcune categorie di professioni, che portano i lavoratori a contatto con sostanze cancerogene associate allo sviluppo di tumori.
Nacque a Londra nel 1713 e morì nella città natale nel 1788. Fu nel 1744 assistente, e nel 1749 chirurgo presso l’Ospedale di S. Bartolomeo, dove operò sino ad un anno prima della
morte. La sua fama è consegnata al famoso «morbo di Pott», ossia la tubercolosi vertebrale, ed alla non meno famosa «frattura di Pott», ossia la frattura bimalleolare della gamba, accompagnata da abduzione.
Alcuni chiamano «malattia di Pott» l’ormai scomparso «cancro degli spazzacamini», che egli individuò e descrisse nell’opera “Chirurgical Observations Relative to the Cataract, the Polyplus of the Nose, the Cancer of the Scrotum, the Different Kinds of Ruptures, and the Mortification of the Toes and Feet” (1775), un vero e proprio rapporto sul cancro causato dall’esposizione professionale, frutto di una osservazione relativa ad un’incidenza insolitamente alta di piaghe cutanee sugli scroti di uomini che lavorano come spazzacamini a Londra.
Scrisse inoltre trattati sulle fratture e lussazioni (1768), sulle ernie, sulle lesioni traumatiche del capo, sulle fistole anali, sulla cataratta, sull’idrocele, ecc., ricchi di osservazioni cliniche e di suggerimenti terapeutici preziosi.
Il rapporto di Pott è stato il primo in cui un fattore ambientale è stato identificato come agente cancerogeno. La malattia divenne nota come cancro degli spazzacamini e il lavoro di Pott gettò le basi per la medicina del lavoro e le misure per prevenire le malattie legate al lavoro.
«Ramazzini ha scritto De morbis artificum diatriba; la Colica di Poictou è un noto malumore, e tutti conoscono i disordini di cui sono soggetti i pittori, gli idraulici, i vetrai e gli operai della biacca; ma c’è una malattia come peculiare di un certo gruppo di persone, che, almeno a mia conoscenza, non è stata notata pubblicamente; intendo il cancro degli spazzacamini»
Queste le parole di Pott: «Nella loro prima infanzia, sono più frequentemente trattati con grande brutalità e quasi affamati di freddo e fame; vengono spinti su camini stretti, e talvolta caldi, dove sono ammaccati, bruciati e quasi soffocati; e quando arrivano alla pubertà, diventano particolarmente suscettibili di una malattia molto rumorosa, dolorosa e fatale». Tra coloro che diventavano adulti, risultò particolarmente diffusa una malattia che colpiva i genitali maschili. Veniva diagnosticata sempre dopo la pubertà, perciò i medici pensavano fosse una malattia venerea e la trattavano come tale, utilizzando per la cura i sali di mercurio, la tipica terapia somministrata all’epoca in caso di sifilide e gonorrea.
Pott fu invece il primo a comprendere che si trattava di una forma di cancro: il disturbo si presentava in una prima fase nello scroto per poi estendersi ai testicoli e agli altri tessuti.
L’approccio di Pott era unico tra i suoi contemporanei in quanto non si limitava a notare un’associazione, ma si avvicinava al carcinoma degli spazzacamini da una prospettiva di tipo causale. Il suo lavoro ha contribuito in seguito a identificare la fuliggine come l’agente che causa la malattia: per occupare meno spazio durante la pulizia delle canne fumarie, i bambini vi si infilavano spesso nudi, e la fuliggine e gli altri residui della combustione si annidavano facilmente nelle parti intime e quei composti tendevano a rimanere nelle pieghe dello scroto, causando il cancro degli spazzacamini.
Pott è diventato famoso per queste connessioni tra rischi professionali e tumori maligni, anche se la connessione non era pienamente compresa all’epoca. Le “Osservazioni chirurgiche” di Pott hanno fornito un quadro per modellare la comprensione moderna dei tumori sul lavoro.
Il lavoro di Percivall Pott ha influenzato un’ondata di ricercatori e cambiamenti nelle politiche pubbliche. Dopo la sua pubblicazione iniziale, altri casi clinici sono stati esaminati e innescandoo una serie di “Chimney Sweepers’ Acts” che miravano a proteggere le spazzacamini.
Will Withering con la sua osservazione diede al mondo una delle più preziose medicine per il cuore
«Le digitali sono amare, calde e secche, e possiedono una certa qualità depurante; eppure sono inutili, e non hanno posto tra le medicine».
John Gerard, Herbal (Erbario), 1597
John Gerard, Herbal
Sulle pareti di una chiesa di Birmingham, in Inghilterra, si trova una strana lapide. Documenta la morte di un medico locale, Will Withering di 58 anni, ed è decorata con una scultura su pietra della pianta che in inglese si chiama “foxglove”, il guanto della volpe, ovvero la digitale. Per quasi 40 anni, Withering, nato nel 1741, aveva combattuto due malattie, l‘idropisia e la tubercolosi. Sconfisse la prima “inventando” la digitale, ma fu sconfitto dalla seconda, che lo uccise nel 1799. Will Withering non scoprì la digitale, ma colmò il divario tra medicina ed erboristeria grazie all’incontro con un paziente affetto da idropisia e guarito per merito della mistura di un erborista, tra i cui ingredienti il medico inglese trovò proprio la digitale. Per dieci anni effettuò sperimentazioni cliniche sulle sue sostanze costituenti, i digitalici, e stabilì che costituivano una cura per l’idropisia.
William Withering
La pianta della digitale, considerata da sempre velenosa ed associata in qualche modo alla ‘stregoneria’ era stata utilizzata per vari scopi per molti secoli, ma dal 1745 la pianta era caduta in discredito a causa di un uso sconsiderato.
La prima accurata descrizione degli effetti terapeutici della digitale è contenuta in nove casi clinici apposti da Erasmus Darwin nella tesi di laurea di suo figlio e pubblicata nel 1780. Ma la prima descrizione sull’uso della digitale purpurea risale al 1775 e porta la firma di William Withering, assegnato al Birmingham General Hospital da Erasmus Darwin, il nonno del famoso Charles, nel periodo in cui l’idropisia, o edema, era una piaga per numerosi paesi. La malattia aveva il grottesco effetto di gonfiare il corpo a tal punto che a volte le vittime annegavano nei loro stessi fluidi organici, coi polmoni tanto saturi da provocare asfissia. I medici provavano a purgare la vittima, estraendo litri di fluidi. Cura che a volte aveva successo, ma altrettanti erano gli insuccessi che portavano al decesso del paziente. Fu Withering ad affermare nel 1776 che la Digitalis purpurea meritava maggiore attenzione rispetto alla pratica e fu lui a portare il farmaco all’attenzione di Darwin.
An account of the foxglove, and some of its medical uses- with practical remarks on dropsy, and other diseases By William Withering.
Nella prefazione della sua opera Withering afferma di essersi deciso a scrivere dell’utilizzo della digitale affinché anche altri traggano qualche insegnamento dalla sua esperienza, prima che “un farmaco di tanta efficacia sia condannato e respinto come pericoloso ed ingestibile”.
Withering raccoglie la propria esperienza in 163 pazienti durante 10 anni di studio, un capolavoro di attenta osservazione, registrazione onesta e interpretazione perspicace. Il suo lavoro ha indubbiamente contribuito alla restituzione della Digitalis purpurea all’influente Farmacopea di Londra, stimolando un filone di ricerca che continua fino ad oggi.
Queste le parole del medico: «Dopo essere stato spesso esortato a scrivere su questo argomento, spesso ho rifiutato di farlo, per la mia stessa apprensione, alla fine sono costretto a prendere in mano la penna, per quanto non qualificato potrei ancora sentirmi per il compito. Sono passati circa dieci anni da quando ho iniziato a usarlo come medicinale».
Withering si preoccupava della obiettività, accuratezza e validità dei suoi dati ed era sensibile al giudizio dei suoi coetanei, come emerge sempre dalla sua opera “An Account of the Foxglove, and Some of its Medical Uses: with Practical Remarks on Dropsy, and Other Diseases” «Sarebbe stato un compito facile fornire casi selezionati, il cui trattamento di successo avrebbe parlato con forza favore della medicina, e forse lusinghiero per la mia reputazione. Ma Verità e Scienza condannerebbero questa procedura. Ho quindi menzionato tutti i casi in cui ho prescritto il Foxglove, corretto o improprio, con risultati di successo o meno. Una tale condotta mi aprirà la censura di coloro che sono disposti a censurare, ma farà incontrare l’approvazione degli altri, che sono i più qualificati ad essere giudici»
L’immagine di William Withering che emerge da queste parole è quella del clinico e dello sperimentatore clinico ideale, senza tempo, i cui strumenti erano semplicemente il potere di osservazione e di intelletto.
Fisch C. William Withering: An account of the foxglove and some of its medical uses 1785-1985. J Am Coll Cardiol. 1985 May;5(5 Suppl A):1A-2A. doi: 10.1016/s0735-1097(85)80456-3. PMID: 3886745.
L’Oculistica incominciò a diffondersi a Roma verso il I secolo a.C., come viene attestato da un certo numero di stele funerarie in cui sono menzionati i “medici oculari” e i “chirurghi oculari”, inizialmente distinti, poi riuniti in una unica figura. Il V e il VII libro del “De Medicina” di Celso sono dedicati all’Oculistica e vengono descritte trentasei malattie, tra cui congiuntiviti, ulcere, tumori – è stato Celso ad individuare l’epitelioma delle palpebre – la cataratta e altre patologie.
Si tratta di una disciplina specifica della medicina di cui abbiamo narrato l’evoluzione nei secoli, a partire appunto dall’antica Roma passando dal Rinascimento per arrivare al Settecento con la celebre figura di Antonio Scarpa.
Da sempre si è cercato di individuare metodi risolutivi per migliorare il più possibile le condizioni del paziente affetto da patologie all’occhio, malattie che sono state rappresentate nella storia dell’arte poiché molto diffuse tra le varie popolazioni di tutte le epoche storiche.
Pieter Bruegel the Elder (1568) La parabola dei ciechi
Gli occhi sono sempre stati considerati preziosi nella storia dell’umanità, poiché permettono di vedere ciò che ci circonda, individuare e selezionare il cibo, accorgersi e quindi evitare pericoli; ne consegue che, fin dalle civiltà più antiche, l’uomo abbia cercato di preservare gli occhi da malattie e inconvenienti vari. Il kajal (o khol) costituiva una cura naturale per gli occhi, antica cinquemila anni, utilizzata dai popoli dei luoghi più assolati e caldi del mondo, quindi l’India, l’Arabia, e l’Africa (in particolar modo in Egitto). Questo rimedio si preparava in casa ogni giorno, con un piccolo rito, impastando ingredienti naturali con proprietà idratanti, lenitive, antibatteriche, decongestionanti e antinfiammatorie; veniva posto sulle rime oculari e sulle palpebre di uomini, donne e bambini, per proteggere, idratare e disinfettare gli occhi. Gli abitanti dell’antico Egitto erano particolarmente dediti alla cura del proprio corpo, sia sotto il profilo igienico, che estetico: il kajal nasce dapprincipio con scopi sanitari, il lato estetico della sua applicazione venne aprezzato nel tempo, quando gli Egizi inventarono la cosmesi, ornandosi lo sguardo con eyeliner e ombretti a base di khol e notarono che il trattamento rendeva lo sguardo più ampio e profondo.
la figura Maschera di mummia femminile https://collezioni.museoegizio.it/it-IT/material/S_8470 è uno dei tanti esempi di occhi egizi trattati con questo rimedio dalla duplice funzione.
La condizione più riscontrabile in opere d’arte è quella della cecità, ossia la forma più pronunciata di disabilità oculare, con una mancanza totale o parziale della percezione visiva di uno o di entrambi gli occhi.
George de la Tour (Suonatore di ghironda, 1620)
Tra i dipinti più noti vi è quello del francese George de la Tour (Suonatore di ghironda, 1620), il quale, con un realismo crudo e impietoso, ritrae il ghigno deformante che attraversa il viso di questo musicista cieco, intento a suonare uno strumento tipico degli artisti ambulanti, la ghironda.
Josephus Dyckmans (Il mendicante cieco, 1852)
Anche il belga Josephus Dyckmans (Il mendicante cieco, 1852) testimonia come molto spesso persone affette da cecità, colpite da grave disabilità, fossero destinate a vivere ai margini della società, costrette quindi all’elemosina o a guadagnarsi da vivere come musicisti di strada: il tema iconografico del “mendicante cieco” è stato assai sfruttato dagli artisti sei—settecenteschi per riscattare e documentare, almeno attraverso l’arte, una classe sociale debole, povera e oppressa.
Altra patologia visiva facilmente riscontrabile soprattutto nella ritrattistica, è lo strabismo, disturbo oculistico caratterizzato da una deviazione degli assi visivi, causata da un malfunzionamento dei muscoli oculari; la presenza di questa problematica oftalmica nell’arte è legata all’esigenza, in auge in tutte le epoche, di acquisire documenti iconografici sui personaggi storici. I vari soggetti, appartenenti a tutte le classi sociali, uomini e donne, ecclesiastici, guerrieri, sovrani e persone del popolo, venivano ritratti fedelmente e con realismo, indipendentemente dai difetti fisici.
Ritratto Cosimo de’ Medici in armatura, 1545
Esistono quindi numerosi ritratti grazie ai quali oggi sappiamo chiaramente che gli effigiati erano affetti da strabismo: tra questi, ad esempio, Cosimo de’ Medici, raffigurato da Agnolo Bronzino (Ritratto Cosimo de’ Medici in armatura, 1545), oppure il Cardinale Tommaso Inghirami, dal pennello di Raffaello Sanzio (Ritratto del Cardinale Tommaso Inghirami, 1514) : entrambi i soggetti manifestano, in un solo occhio, uno strabismo divergente, di entità differente, e più accentuata nel Cardinale.
Ritratto del Cardinale Tommaso Inghirami, 1514
Per quanto concerne, invece, i difetti di rifrazione, per molti secoli non ci fu soluzione, fino a che si pensò alla fabbricazione di lenti che correggessero il problema e permettessero una visione migliore: sebbene primissimi e rudimentali prototipi di lenti vennero approntati nell’antichità romana, grazie a pietre e vetri, la svolta ci fu nel XIII secolo, quando alcuni monaci italiani svilupparono una lente semisferica fatta di cristallo di rocca e quarzo, in grado di ingrandire le lettere se posizionata su una pagina scritta. Questa ”pietra da lettura” fu una benedizione per molti monaci anziani che soffrivano di presbiopia e migliorò notevolmente la qualità della loro vita; mentre le pietre da lettura riuscivano ad aiutare molte persone nella vita di ogni giorno, erano ancora lontane dall’essere dei veri e propri occhiali come li conosciamo oggi.
L’innovazione arrivò attorno al 1280, presso le vetrerie dell’isola di Murano, a Venezia, ove i vetrai realizzarono qualcosa di portentoso: per la prima volta riuscirono a molare due lenti convesse e a incastonarle in due cerchi di legno uniti da un segmento e un rivetto: questo primo prototipo non presentava alcun elemento che lo tenesse fissato alla testa del portatore, ciononostante, in quell’epoca erano il miglior ausilio desiderabile per il comfort visivo; per poter vedere meglio, chi indossava questi “occhiali a rivetto” doveva tenerli con le mani fermi davanti agli occhi, quindi erano utilizzati solo al bisogno, poiché non vi era ancora modo di portarli con continuità durante il giorno.
Con il passare dei secoli, i maestri vetrai sostituirono il segmento degli occhiali a rivetto con un arco, e il materiale della montatura passò dal legno, cuoio, tartaruga, stecche di balena e osso, al metallo, il quale, essendo più elastico, con l’opportuna sagomatura del ponte permise di ottenere occhiali che si reggessero da soli sul naso. L’esigenza di occhiali “autoreggenti” si fece sempre più impellente con l’invenzione della stampa (1455) e il conseguente incremento esponenziale dell’editoria, che diede un grande impulso anche all’ottica.
Dopo vari tentativi e ricerche atte a trovare la modalità per fissare stabilmente gli occhiali al volto, e poterli indossare continuativamente, finalmente, grazie all’ottico inglese Edward Scarlett (1688—1743), nel 1727 furono dotati di aste che premevano sulle tempie, dando origine ai cosiddetti “occhiali da tempia”.
L’invenzione degli occhiali è inserita tra le acquisizioni più importanti dell’umanità, assieme a quella della ruota e alla scoperta del fuoco; nell’arte più antica, naturalmente, non compaiono occhiali, accessorio che divenne però ben presto elemento per delineare la figura dello studioso, del medico e del chirurgo, ma anche degli apostoli e dei profeti, a indicare saggezza, vecchiaia e approfondimento.
affresco di Tomaso da Modena (Cardinale Ugo di Provenza, 1352)
L’affresco di Tomaso da Modena (Cardinale Ugo di Provenza, 1352), appartenente a un ciclo che ritrae quaranta frati domenicani illustri, intenti in attività intellettuali quali lettura, scrittura, riflessione e trascrizione di testi, è ritenuta la prima raffigurazione nella storia dell’arte degli occhiali. L’opera, datata 1352, quindi circa settant’anni dopo l’invenzione dello strumento visivo, ci mostra il primo modello a rivetto, con perno centrale che permetteva di richiudere gli occhiali facendo scorrere una lente sull’altra. Appare curioso come il soggetto ritratto, il Cardinale Hugues de Saint—Cher, nominato nel 1244, abbia entrambe le mani sul tavolo: non sappiamo quindi come facessero gli occhiali a reggersi sul suo volto, ma è possibile che si tratti di una raffigurazione di fantasia e l’artista abbia sottovalutato questo fattore.
Qui alcune tra le opere più note raffiguranti gli occhiali a rivetto
Dettaglio. La Madonna del canonico van der Paele è un dipinto olio su tavola (122,1×157,8 cm) di Jan van Eyck, datata 1436 e conservata nel Museo Groeninge a Bruges.L’apostolo degli occhiali di Konrad von SoestFriedrich Herlin: La circoncisione di Cristo, 1466 (Polittico di Rothenburg, Germania)