L’inferno della malattia mentale

la rappresentazione della follia nella mostra l’Inferno

Rappresentazioni della malattia mentale sono state inserite nella mostra Inferno, a cura di Jean Clair, ospitata alle Scuderie del Quirinale in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri.

“Il fascino del male è noto da tempo, la novità sta nella sua estetizzazione. In questo senso, la “bellezza del male” è un’invenzione del tutto moderna. Questa bellezza mortifera non ha più nulla a che vedere con quella consolatrice di Baudelaire – in cui tutto è lusso, calma e voluttà. È la maschera del piacere che gli uomini assumono quando contemplano l’orrore o stuzzicano le passioni più oscure” – Philippe Comar, nel suo testo “L’inferno della psiche”

La follia, intesa come alterazione della personalità umana, è stata accolta nel grande repertorio figurativo dell’arte inizialmente come Arcano, ovvero come immagine nella quale confluivano misteriosamente componenti umane, elementi magici e astrologici ispirati all’antica scienza della cabala. È solo nel corso del Rinascimento che la follia diventa oggetto di indagine speculativa, testimoniata da scritti, da trattati e da numerose rappresentazioni. La follia, considerata per di più come una sorta di punizione inflitta all’uomo per la continua caduta nel peccato e per il perseguimento di piaceri personali, si manifestava, secondo l’opinione comune dell’epoca, fortemente improntata ad un rigoroso moralismo, attraverso la perdita della ragione e l’alterazione dell’aspetto fisico.

Sotto un segno diverso viene affrontato il tema della follia nell’arte dell’Ottocento. La sensibilità romantica, analizzando tutte le possibili e varie manifestazioni dell’animo umano, fa rientrare nell’ambito della sua indagine anche quelle derivanti da disturbi delle facoltà mentali. Sempre nell’Ottocento una diversa visione del problema della follia, osservato nei suoi risvolti sociali è affrontato da Telemaco Signorini (1835-1901), un pittore che aderisce alla corrente italiana dei Macchiaioli: Il dipinto La sala delle agitate nel manicomio di San Bonifacio, realizzato nel 1865 provocò delle violente reazioni in un pubblico che era abituato a contemplare stucchevoli soggetti storici o religiosi di stampo ancora romantico. L’accoglienza ricevuta dall’opera può essere misurata dalle parole di Giuseppe Giacosa che così si espresse: “La sala delle agitate al manicomio di Firenze è un quadro che vi mette addosso i brividi della paura: è un quadro che non mi piace, ma che esercita le spaventose attrazioni dell’abisso e che rivela nell’autore una giustezza e una robustezza quale a pochi è dato di raggiungere”.

La sala delle agitate nell’ospizio di San Bonifacio, noto anche come La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze o semplicemente come La sala delle agitate è un dipinto del pittore macchiaiolo Telemaco Signorini, eseguito nel 1865

Uno stanzone enorme e spoglio, riempito violentemente da una luce intensa e abbacinante, ritaglia in controluce le sagome delle pazze. Poche sono in piedi, la maggior parte è bloccata dietro allineati contro il muro, che formano una ulteriore barriera in un ambiente chiuso da grate e da cancelli. Questa spettrale visione di un luogo destinato al ricovero dei malati di mente, doveva far riflettere l’opinione pubblica della nazione appena formatasi, sull’esistenza di una condizione umana diversa e ignorata. Una attenzione che il nuovo stato avrebbe dovuto affrontare e che la denuncia fatta da un’arte, ritenuta fino a quel momento, espressiva solo di valori estetici, segnalava in maniera urgente e perentoria.

Giacomo Balla, La Pazza (1905), olio su tela, cm 175 x 115

Giacomo Balla, La Pazza (1905), olio su tela, cm 175 x 115
Una figura di donna dall’atteggiamento stravolto, le cui movenze disarticolate si stagliano imponenti in controluce e suscitano nell’osservatore sensazioni di sgomento e pietà; è un’opera che ben rappresenta la stagione pre-futurista di Balla, caratterizzata dall’adesione formale al divisionismo e, per quanto riguarda i contenuti, ai soggetti di impianto verista. In questi primi anni di residenza a Roma il pittore applica la sua spiccata sensibilità cromatica e luministica a figure e ambienti tratti dalla realtà dell’emarginazione sociale, condividendo la scelta con una cerchia di intellettuali vicini alle tesi del Socialismo umanitario.

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