Pulci, zecche, pidocchi: le grandi epidemie di peste, come quella della peste nera nel Medioevo, mietevano molte vittime causate da roditori, sovrappopolazione urbana e cattive condizioni igieniche. Proprio la scarsa igiene rappresenta il contesto ideale per la proliferazione dei batteri che causano la peste diffusi dalle pulci di ratto, che possono trasmettere l’infezione all’uomo attraverso le punture. In caso di contatto diretto con un animale infetto, l’uomo può contrarre l’infezione anche attraverso una ferita cutanea. Raramente, l’infezione si trasmette da persona a persona attraverso l’inalazione di goccioline diffuse con la tosse o gli starnuti. La diffusione tra esseri umani, di solito, si verifica soltanto tra gli individui che vivono con o accudiscono un paziente affetto da peste polmonare.
Presenti nell’arte senza mai essere stati rappresentati direttamente, pulci e pidocchi sono un tema ricorrente in molti dipinti, a partire dal Seicento, grazie alla diffusione della cosiddetta “pittura di genere”, volta a ritrarre, come mai si era visto prima, scene di vita quotidiana, interni di abitazioni anche umili, e attività legate al popolo. In questa crescente esigenza di realismo, svelare anche i momenti più intimi e riservati, ma spesso anche i bassifondi della società e le misere condizioni di vita, si collocano opere che consentono di vedere momenti finora riservati, offrendo uno spaccato anche di quelle che erano le situazioni igieniche e abitative dell’epoca.
Così, anche il rito dello spidocchiamento, tanto diffuso nel passato, assurse a dignità nelle narrazioni di cronaca da parte degli artisti che inseguivano il canone della realtà, e gli insetti vennero assai citati anche in letteratura e in poesia, con vesti più o meno satiriche.
Pulci e pidocchi facevano parte di un contesto sociale in cui le condizioni igienico—sanitarie favorivano decisamente il loro proliferare, perciò, madre o nonna, nessuna donna di casa poteva esimersi dal compito di passare attentamente in rassegna le capigliature della famiglia durante le ore tranquille, e di solito, il compito di rimuovere i pidocchi era legato all’anzianità della persona, attività sempre e comunque a prerogativa femminile.
In molti villaggi esisteva persino una figura professionale, quella della “spidocchiatrice”, che aveva il compito di tenere il più possibile questi fastidiosi insetti ematofagi lontani dalle teste delle persone. Al di là del prurito immediato, essi erano potenziali portatori di malattie ben più gravi: la già citata peste e il tifo, la cui infezione è generalmente trasmessa dai pidocchi quando le feci penetrano nell’organismo attraverso le lesioni cutanee o, talvolta, attraverso le mucose degli occhi o della bocca.
Il dipinto di Giuseppe Maria Crespi (Cercatrice di pulci, 1720 circa), il quale dedica diverse opere al tema dello spidocchiamento e delle pulci, fissa un momento in cui le pulci stravolgono spiacevolmente il benessere e l’igiene della donna rappresentata, che, al suo risveglio si gratta per scacciare gli insetti invadenti; la protagonista è colta nell’intimità della sua camera da tetto, in un ambiente disordinato.

Opere molto frequenti, come quella dell’olandese Gerard ter Borch (Madre che spidocchia la figlia, 1652) vanno oltre il gesto meccanico di rimuovere i parassiti dai capelli di figli e nipoti, quando i rimedi o meno fantasiosi non funzionavano, ma testimoniano anche l’affetto che legava i protagonisti del quadro tratti in tranquilli momenti di intimità familiare.

Il dipinto dello spagnolo Bartolomé Esteban Murillo (Quattro personaggi, 1655—60) già molto interessante poiché mostra una delle rare apparizioni di occhiali nella storia dell’arte, riporta una scena scherzosa (come rivela il ragazzo che sorride a sinistra), che si riferisce allo spidocchiamento di un bambino: dallo stesso disturbo sembra afflitta la giovane donna che si sta togliendo il panno dai capelli e che fa una smorfia, forse infastidita dal prurito. La nonna (o la mamma) interviene con sapienza, inforcando occhiali che consentono di mettersi minuziosamente all’opera nonostante la presbiopia, legata all’età.

Anche il dipinto del fiammingo Michiel Sweerts (Ragazzo che dorme e uomo che si spulcia, 1650 circa) ritrae un uomo intento nello scacciare insetti molesti dal proprio corpo, all’aperto, anche se stavolta si tratta di pulci.

Contrariamente a quel che può sembrare, pulci e pidocchi non infastidivano soltanto le classi sociali più umili, anzi interessavano anche i ceti più abbienti, persino la nobiltà, in periodi storici nei quali, evidentemente, l’igiene e la pulizia non dovevano sembrare poi così importanti, nemmeno all’interno dei sontuosi palazzi nobiliari. E così, dal momento che l’acqua e il sapone non parevano la strada più facilmente percorribile, e gli odori pesanti venivano “coperti” con essenze e profumi, i ceti sociali più alti (perlomeno le donne), potendoselo permettere, pensarono di risolvere il problema dei parassiti con uno stratagemma assai curioso: a cavallo del Cinquecento, l’abbigliamento femminile si arricchì di un nuovo, quanto mai bizzarro, accessorio di moda, la cosiddetta “pelliccia da pulci”, indossata anche in estate, poiché non serviva per riparare dal freddo, ma aveva lo scopo di attirare pulci e altri insetti molesti, così da lasciare “libera” la dama che la indossava.