Praparati galenici, semplici e officinali

Cosa sono le preparazioni galeniche?

Il termine di «preparato galenico» indica forme medicamentose costituite da più sostanze di origine naturale e soprattutto vegetale, preparate in una forma farmaceutica adatta per la cura di una determinata malattia.
Questo in quanto Galeno, discostandosi dal pensiero ippocratico, non riconosceva nella natura l’unico mezzo curativo e fece ricorso ad un impiego molto frequente di farmaci.
L’uso delle piante per scopi terapeutici ha origini molto antiche ed inizia con le prime conoscenze dell’uomo sul mondo vegetale. Oltre alle piante usabili come alimenti, i popoli antichi rivolsero la loro attenzione anche a quelle che potevano avere un’azione medicamentosa, preoccupandosi di separare le piante che potevano essere utilizzate da quelle che potevano procurare disturbi o addirittura morte.
Risale, dunque, a tempi molto remoti, la distinzione tra piante medicinali e piante velenose, distinzione che solo la moderna farmacologia ha attenuato, dimostrando che anche i principi contenuti nelle piante velenose potevano avere un’azione benefica se usati in dosi opportune.

Nel secondo secolo dopo Cristo, Galeno di Pergamo nella sua opera, che costituì per molti secoli un punto di riferimento obbligato per intere generazioni di medici, stabilisce una distinzione fra l’impiego delle singole piante che definisce semplici e l’uso di miscele di piante ad azione sinergica. Egli non opera una distinzione tra le qualità intrinseche delle piante e i loro effetti terapeutici (facultates): le piante, per esempio, che sono in grado di provocare un raffreddamento, sono usate per risolvere l’infiammazione, affezione classificata come malattia calda, a prescindere dal fatto che posseggano costituenti antinfiammatori. Ogni erba viene identificata col referente della sua funzione e uso terapeutico e non in base alla sua attività farmacologica: le erbe vengono classificate a seconda delle loro facultates e ciò permette di derivarne l’impiego terapeutico.

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Title page “Introductio seu medicus”
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images@wellcome.ac.uk
http://wellcomeimages.org
Title page
16th Century Introductio seu medicus (Claudi Galeni Pergameni Introductio seu medicus. De sectis ad medicinae candidatos opusculum / Guinterio Ioanne Andernaco interprete)
Galen
Published: 1528
Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/

emplici’ e ‘officinali’

Vennero detti nel latino medievale simplicia medicamenta (medicamenti semplici) quelli che già Galeno definiva in greco haplà phérmaka. La denominazione medievale, abbreviata in simplicia, passò immutata nel volgare e tale sopravvive tuttora per indicare quei prodotti minerali, vegetali o animali che con più moderna terminologia si direbbero sostanze o erbe officinali. Il nome officinali deriva da officina (termine usato dai latini e, successivamente, fino al Medioevo), che significa «bottega» o «fabbrica», e che indicava appunto il luogo in cui queste piante venivano preparate e vendute.

 

Gli ospedali medievali: la pietas e l’arte per il malato

Vivere nel Medioevo voleva dire vivere in una società molto dura, ma l’aspetto che livellava ricchi e poveri, nobili e miserabili era l’assenza di cure mediche. Di fronte alla malattia, tutti erano uguali perché non esistevano farmaci efficaci, né vere terapie.

L’assistenza ospedaliera nel Medioevo basava la sua organizzazione sul sentimento cristiano dell’aiuto materiale e spirituale al prossimo bisognoso, concetto che sopravvisse fino al 18° secolo, quando finì per prevalere la funzione di luogo di cura.  Nonostante questo, nel XIV e XV secolo, nelle principali città sorsero nuovi ospedali che costituirono veri e propri capolavori d’arte. Luogo innanzitutto di ospitalità, era accoglienza anche per i malati, ma non in quanto tali, bensì perché sovente era lo stato di malattia a determinare quello di necessità.

Esemplari l’Ospedale Santa Maria della Scala a Siena, oppure Santa Maria Nuova a Firenze. Va tuttavia fatto presente che questi ospedali, sebbene ricchi di arti con sculture, marmi, pitture che li rendevano preziosi dal punto di vista artistico, non avevano sempre i requisiti tecnici ritenuti indispensabili per un ospedale.

Il grande complesso del Santa Maria della Scala, situato nel cuore di Siena, di fronte alla cattedrale, costituì uno dei primi esempi europei di ricovero ed ospedale, con una propria organizzazione autonoma e articolata per accogliere i pellegrini e sostenere i poveri ed i fanciulli abbandonati. Il Santa Maria della Scala conserva straordinariamente integre le testimonianze di mille anni di storia, restituendo un percorso che, dall’età etrusca all’età romana, dal Medioevo al Rinascimento, giunge interrotto sino a noi.

A questo link le collezioni del Complesso Museale Santa Maria della Scala, realizzato con Google Arts & Culture, una raccolta online di immagini in alta risoluzione di opere d’arte esposte in vari musei in tutto il mondo, oltre che una visita virtuale delle gallerie in cui esse sono esposte

 

Erbari e Bestiari, trattati e rimedi nel Medioevo

l’iconografia dei rimedi assume un fascino particolare negli Erbari del Medioevo

A partire dal mondo antico, per giungere sino all’era moderna e contemporanea, si cercarono nel mondo della natura i mezzi per combattere le malattie che da sempre hanno afflitto l’umanità.

Ippocrate aveva affermato che, qualora la dieta non fosse sufficiente a ridonare la salute a un malato, allora il medico doveva ricorrere a rimedi – farmaci o trattamenti idonei – per ristabilire l’equilibrio degli umori ed eliminare l’eccesso dell’umore che era causa della malattia.

Il rimedio è il farmaco, cioè un principio attivo (in genere erbe o sostanze dal regno animale) in grado di imprimere al corpo una modificazione uguale e contraria alla causa di malattia. Esso è in grado indifferentemente di guarire o di nuocere; il suo effetto dipende unicamente dall’abilità del medico che sa valutare il kairós, l’opportuno, e regola la forza del rimedio, somministrandolo in dosi opportune.

Tutto può essere farmaco: erbe del Mediterraneo, sostanze di importazione orientale, ma anche cibi di normale utilizzo. Il trattato sul Regime (fine V – inizi IV secolo a.C) elenca tutta una serie di alimenti, crudi o cotti, che possono correggere il corpo. Grazie a Marco Porcio Catone con il suo “Praecepta ad Marcum filium”, in particolare nella sezione dedicata al “de agri cultura”, possiamo conoscere i sistemi di cura e le piante medicinali usate dai romani di questo periodo. Fra tutte Catone prediligeva il cavolo, anzi, i cavoli: egli indica quattro diverse varietà, che costituivano, a suo dire, una vera panacea contro tutti i mali. “Con i cavoli medicava piaghe, curava ascessi, tumori maligni, riduceva fratture e lussazioni, leniva congiuntiviti ed eczemi, debellava la malinconia e l’insonnia. Interessanti i metodi usati: per i polipi nasali suggeriva di triturare finemente le foglie e aspirare la polvere per alcuni giorni. In caso di sordità consigliava di infondere il cavolo nel vino e poi di versare il succo così ottenuto, goccia a goccia, nell’orecchio malato. Per le malattie cutanee bastava applicare le foglie sulla parte lesa, mentre per favorire la digestione e lenire i dolori di stomaco occorreva condire le foglie con l’aceto e mangiarne qualche po’ prima di ogni pasto. L’insonnia si curava con il costante uso serale di questa verdura e così via. Per buona sorte dei suoi concittadini Catone suggeriva anche l’uso di qualche altra pianta medicinale, come ad esempio il melograno per le elmintiasi, le foglie di menta e ruta per medicare piaghe e ferite e quelle dell’assenzio che, opportunamente disposte, erano un toccasana per prevenire le abrasioni alle natiche che si formano quando si cavalca a lungo. Infine, e qui era all’avanguardia perché pare che sia stato il primo a citarli, suggeriva l’uso di vino e mosto medicato con varie essenze vegetali”(1).

Successivamente Galeno, maestro indiscusso per tutto il Medioevo e sino al Seicento, aveva dato l’esempio con i suoi imponenti trattati dedicati ai rimedi: i “semplici” erano alla base dei “composti” e si ricavavano soprattutto dal mondo vegetale, ma una buona parte si attingeva anche al mondo animale e a quello minerale.

Durante il Medioevo, fiorì un’abbondantissima letteratura farmacologica dedicata ai medicamenti “semplici” e “composti”, in particolare prese avvio la letteratura degli Erbari, dei Bestiari e dei Lapidari  (che descrivevano le virtù delle pietre), sempre accompagnata da illustrazioni che esercitano oggi un particolare fascino, in quanto esempi di quanta parte dedicata alla fantasia e alla fantasticheria queste opere facessero ricorso.

Mandragola Maschio. Herbarium Biblioteca Universitaria di Pavia XIV secolo
Mandragora Maschio. Herbarium Biblioteca Universitaria di Pavia XIV secolo
mandragola femmina
mandragora femmina

La radice fusiforme della mandragora (Mandragora officinarum) ricorda, per la sua forma, il corpo umano. La mandragora contiene alcaloidi derivati dal trapano, di effetto stupefacente, e nel Medioevo era considerata una pianta magica e medicinale. Si credeva avesse poteri per proteggere chi la possedeva dai cattivi spiriti e per avere successo e felicità. Le credenze dicono che non poteva essere raccolta con una forca o con l’aiuto di un cane nero, altrimenti avrebbe perso i suoi poteri.

La trascrizione di manoscritti nei monasteri condusse, durante l’Alto Medioevo, alla formazione di una medicina, chiamata monastica, caratterizzata da raccolte di scritti sulle proprietà medicinali delle piante.

Con il “Capitulare de villis“, introdotto da Carlo Magno intorno all’812 per regolare l’amministrazione delle proprietà fondiarie e di quelle date in beneficio ai conti e ai vescovi, vennero date indicazioni sulla disposizione delle diverse colture, i tempi della semina, dell’aratura, della mietitura e della vendemmia, la gestione degli animali, il trattamento dei servi e dei coloni, il ruolo dei funzionari. Il decreto, che ordinava ufficialmente ai conventi e ai grandi proprietari la coltivazione di ortaggi, piante medicinali e determinati alberi e fiori, contribuì in grande misura a promuovere lo sviluppo della medicina popolare. In questo modo iniziarono a comparire i primi giardini botanici medicinali in parallelo agli ospedali monastici.

Va segnalata nel XII secolo il Germania l’attività di Ildegarda di Bingen (1098-1 179), famosa badessa e erborista, poi divenuta santa, autrice di due trattati: Physicae o Liber simplicis medicinae e Causae et curae o Liber compositae medicinae. Gli scritti di santa lldegarda ebbero grande importanza nella formazione della nomenclatura tedesca delle piante medicinali. Per la prima volta i nomi locali comparvero accanto alle denominazioni latine.

- Dalla cura alla scienza: Malattia, salute e società nel mondo occidentale (Saggi) - Maria Conforti, Gilberto Corbellini, e altri

Larrey e le ‘ambulanze volanti’

l’ideatore delle «ambulanze volanti», carri a due ruote, portati sulla linea di combattimento per soccorrere i feriti con grande rapidità

Nel 1800 la chirurgia militare, che è la più antica delle specialità chirurgiche, fece un notevole progresso. Che i primi chirurghi della storia fossero militari, incaricati di assistere quanti cadevano feriti durante i combattimenti, non vi è alcun dubbio. Nell’Iliade sono ricordati gli interventi compiuti dal chirurgo Macaone; nell’esercito romano sembra esistessero chirurghi militari; i cavalieri di S. Giovanni assistevano i Crociati feriti; nel medioevo i chirurghi più famosi erano chirurghi militari; durante il Rinascimento lo stesso Parè, che fu uno dei più famosi chirurghi della storia era un chirurgo militare. La chirurgia, come si è già detto, deve molto a questi chirurghi, poiché la maggior parte dei progressi che essa ha compiuto, soprattutto in campo traumatologico, li deve a loro.
Dai tempi di Parè, l’assistenza ai feriti sul campo di battaglia non aveva progredito molto, ma sulla fine del 1700 comparve Dominique-Jean Larrey (1766-1842), un altro grande chirurgo militare francese, che conquistò nella storia della chirurgia militare una posizione di primo piano. Egli prese parte a tutte le campagne napoleoniche in qualità di chirurgo capo dell’esercito, guadagnandosi la stima e l’amicizia dell’imperatore. Poco dopo il suo arruolamento, avvenuto nel 1792, Larrey ideò le «ambulanze volanti», carri a due ruote, leggeri e ben molleggiati, che potevano essere portati sulla linea di combattimento, irraggiungibile con mezzi più pesanti, onde raccogliere e soccorrere i feriti con grande rapidità.


Se le ambulanze volanti diedero fama a Larrey, non furono certo l’unico suo merito, come ben appare dalle sue «Memorie di chirurgia militare e di campagne» (1821), in cui vengono descritte le sue esperienze al seguito dell’armata napoleonica. Fra gli interventi di chirurgia riportati in questa sua opera egli si soffermò particolarmente sulla descrizione della amputazioni, di cui si era fatta una vastissima esperienza durante le numerose battaglie cui partecipò. A quei tempi le amputazioni costituivano uno dei problemi più dibattuti della chirurgia militare. Si discuteva sulla loro necessità e sul momento più opportuno per praticarle, cioè se immediatamente o tardivamente. Larrey fu per principio favorevole all’amputazione immediata sul campo di battaglia, ogni qualvolta non fosse possibile salvare l’arto per la presenza di una frattura esposta o di altre gravi lesioni, poiché sosteneva che l’ospedalizzazione rapida di questi ammalati era impossibile, mentre diventava più facile evacuare gli amputati. Fu per questo motivo che, nella campagna di Russia durante la battaglia di Borodino, egli operò duecento amputazioni. Le disarticolazioni furono poco praticate da Larrey, che preferiva ricorrere alle amputazioni, ritenendole meno pericolose.
La carriera di questo grande chirurgo militare finì a Waterloo e, dopo quella disfatta, dovette affrontare la povertà ed i processi, come tutti i seguaci di Napoleone. Ma la stima dei suoi compatrioti non decadde mai, tanto che fu nominato, nel 1830, primario dell’Ospedale degli Invalidi. Lo stesso Napoleone che, come segno di riconoscenza per il suo valore, lo aveva nominato barone, gli aveva regalato, durante la campagna d’Egitto, la propria spada, su cui aveva fatto incidere le parole «Abukiret Larrey» e gli destinò anche per testamento la somma di centomila franchi.