Origini dell’Ortopedia

Una breve storia dell’Ortopedia

L’ortopedia intesa come cura delle deformità traumatiche ha origini antichissime, ma il termine è stato coniato “solo” nel 1741 da Nicolas André, detto Andry (1668—1741), che lo usò per la prima volta come titolo del suo celebre trattato «L’ortopedia o l’arte di prevenire e di correggere nei fanciulli le deformità del corpo».

 

 

La riparazione dei difetti dell’apparato scheletrico e dei traumi che coinvolgono ossa e articolazioni ha una storia molto più antica e non direttamente connessa con la sola dimensione pediatrica: già Ippocrate si occupava delle fratture e delle deformità, i lavori a lui attribuiti “Sulle fratture” e “Sulle articolazioni” documentano un grado elevato di conoscenza sulla struttura dell’osso e sulle modalità tecniche di intervento correttivo di fratture e lussazioni, mentre è carente la ‘diagnosi’ di patologie ortopediche non direttamente connesse a fatti traumatici, in accordo con le teorie ippocratiche che spiegano ogni malattia come semplice alterazione dell’equilibrio tra i quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e nera). Ad Ippocrate è attribuita la tecnica per la lussazione della spalla.

Risoluzione di una frattura alla spalla, 1544, stampa dal Chirurgia e graeco in latinum di Guido Guidi (Wellcome Collection)

Di argomenti analoghi si occuparono anche Celso e Galeno, che introdusse i termini di scoliosi, cifosi, lordosi e pseudoartrosi: le evidenze testimoniano pratiche per la risoluzione di scoliosi, basate sull’esercizio ginnico, ma anche sulla sospensione del paziente.

Tra i primi esponenti dell’ortopedia – intesa come branca della chirurgia – vanno ricordati alcuni tra i maggiori chirurghi del Rinascimento, come Paré: i suoi studi sulle fratture, lussazioni e fasciature rappresentarono le migliori opere trattanti questa materia dall’antichità classica.
Tra gli italiani Guido Guidi (1508-1559), Giovanni Andrea della Croce (1509 ca.-1575), Girolamo Fabrici d’Acquapendente, che riprende integralmente la tradizione ortopedica di matrice ippocratico-galenica, sia nella classificazione dei diversi tipi di fratture e disarticolazioni che dei trattamenti da eseguire. Le patologie a carico scheletrico sono ancora imputate a debolezza congenita – per difetto del calore vitale – a regimi di vita non idonei, ad addensamenti localizzati di umori freddi e pituosi, ora causa ora effetto di processi infiammatori, tumori e carie.

Il termine ortopedia e di conseguenza anche l’attività ortopedica assunse in seguito un significato più vasto e cioè quello di prevenire e di curare le deformità osteoarticolari degli arti e della colonna vertebrale sia nel fanciullo sia nell’adulto.

Nel 1870 il chirurgo tedesco L. Bauer (1814—1892) introdusse il termine «chirurgia ortopedica» in occasione della pubblicazione del suo trattato sulla chirurgia ortopedica in cui viene estesa anche alla chirurgia la possibilità di curare le deformazioni osteo-articolari, che fino allora venivano trattate solo con apparecchi e macchine – quali corsetti rettificatori, letti raddrizzatori, ecc.

Per lungo tempo, cioè fino quasi alla fine del 1700, le grande maggioranza delle affezioni ortopediche che venivano prese in considerazione erano il piede torto e i difetti di curvatura della colonna vertebrale, trattati in modo incruento.

Agli inizi del 1840, però, vennero chiariti molti problemi riguardanti queste due malattie e vennero proposti nuovi metodi di cura. Uno dei sistemi della messa a punto nel campo dei piedi torti è attribuito ad Antonio Scarpa (1752-1832), con la pubblicazione, avvenuta nel 1803, della sua «Memoria chirurgica sui piedi torti congeniti dei fanciulli». In quest’opera egli confutò definitivamente la vecchia teoria che attribuiva ad una slogatura del tarso l’origine della deformazione e la sostituì con la spiegazione secondo la quale esistono due tipi di piedi torti: quelli dovuti ad una adduzione e supinazione dell’avampiede e quelli dovuti ad una discesa tardiva del calcagno.

Apparecchio per il piede torto ideato da Antonio Scarpa e Jean Leville nel 1804

Dopo l’introduzione in chirurgia dell’anestesia, dell’asepsi e dell’antisepsi, anche gli ortopedici si resero più interventisti e ampliarono il loro campo d’azione. La chirurgia del piede torto si arricchì di numerosi interventi (circa una ventina), tra cui ebbe un discreto successo quello messo a punto da Carl Nicoladoni (1847–1902)(1847-1902), ortopedico viennese, consistente nel trapianto del tendine peroneo (1881). In seguito, però, si ritenne che l’80% dei piedi torti potevano essere guariti mediante manipolazione ortopedica esterna e con l’uso di scarpe adatte.

Contemporaneamente all’evolversi dell’ortopedia, sorsero fra il 1870 e il 1900 cliniche ortopediche universitarie autonome e Istituti Ortopedici speciali per lo studio e la cura delle malattie ortopediche: in Italia il chirurgo Francesco Rizzoli, professore universitario a Bologna, fondò in questa città il primo Istituto Ortopedico e Antonio Codevilla, che ne divenne direttore agli inizi del ‘900, diede vita ad una scuola di fama internazionale. La storia qui

Una suggestiva rappresentazione della disciplina, ma anche del dolore del malato, è data da La colonna rotta, di Frida Khalo (immagine in evidenza)

Non sono malata. Sono rotta.
Ma sono felice fintanto che potrò dipingere
Frida Khalo (1907-1940)

Colonna Rotta - Frida Khalo
Colonna Rotta – Frida Khalo

L’artista realizzò questa opera dopo aver subito un intervento chirurgico alla colonna vertebrale, per correggere i problemi causati da un grave incidente stradale accadutole quando avevo 18 anni. Come per molte opere di questa artista, il dolore e la sofferenza, psichica e fisica, rappresentano il tema cruciale: Frida si rappresenta a seno nudo, con il busto squarciato dall’inguine alla gola, e la colonna vertebrale lesionata. Tutto il corpo è costellato da chiodi a evidenziare il dolore, mentre lo sguardo appare impassibile, nonostante le lacrime. Il corsetto di metallo, prescritto alla pittrice dai medici, costituisce il supporto per sostenere la colonna: tutto il dipinto colpisce per l’ostentazione del corpo come luogo di sofferenza.

https://www.giot.it/wp-content/uploads/2015/06/04Storia_Ortopedia1.pdf 
https://www.treccani.it/enciclopedia/ortopedia_%28Dizionario-di-Medicina%29/ 
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1356223/

La spiritualità come professione: San Camillo de Lellis

la straordinaria opera di assistenza di Camillo de Lellis

“Quello che costituisce il vertice della propria autorealizzazione umana, a cui si tende con tutte le forze e con esiti precari e instabili, diventa uno stato permanente”. Questo l’incipit di “Sulla terra in punta di piedi” di Sandro Spinsanti, direttore dell’Istituto Giano, che in questo libro affronta la dimensione spirituale della cura.

Spinsanti, nel tracciare un breve excursus legato a vite sotto l’insegna della religione, ricorda come nella storia sono numerosi gli esempi di ‘famiglie religiose’ che uniscono la preghiera all’assistenza. Tra le più note spiccano figure come San Vincenzo de Paoli, don Guanella o Camillo de Lellis.

Quest’ultimo è il fondatore dell’Ordine dei Ministri degli Infermi, insieme ai primi cinque compagni che si erano consacrati alla cura degli infermi, nell’agosto del 1582, i cui primi statuti vennero approvati da papa Sisto V il 18 marzo 1586. La nuova Congregazione con l’approvazione papale ottenne anche l’assenso alla richiesta di portare una croce di panno rosso sopra la veste come segno distintivo dei “ministri degli infermi”.

Camillo de Lellis – la cui vita completa è disponibile a questo link dell’enciclopedia Treccani – maturò la propria decisione nel contatto quotidiano con tali problemi e nell’esercizio della carità al servizio di malati e poveri, raccolti e racchiusi in numero sempre crescente nelle istituzioni ospedaliere. Nei grandi ospedali rinascimentali si andava sempre di più verificando un degrado dell’assistenza, con personale prevalentemente laico, pessime condizioni igieniche che favorivano il diffondersi di epidemie. Da qui l’idea di una Congregazione totalmente dedita alla cura fisica e spirituale degli infermi: cioè “una compagnia d’huomini pii e da bene, che non per mercede, ma volontariamente e per amor d’Iddio servissero gli infermi con quella charità et amorevolezza che sogliono far le madri verso i lor proprii figliuoli infermi” (Scritti…, p. 52).

L’opera di de Lellis fu rivoluzionaria: da una parte una grande disciplina posta da Camillo nel redigere la contabilità dell’ospedale, che creò la fiducia necessaria per attrarre generose donazioni. Dall’altra un sistema di regole redatte tra la fine del 1584 e l’inizio del 1585: in esse particolare rilievo veniva dato all’obbligo della povertà con l’impegno a non accettare nessuna donazione ereditaria dagli infermi. Le regole non si soffermano tanto, però, sulla regolamentazione della vita religiosa dei confratelli quanto piuttosto sulla descrizione degli “ordini et modi che si hanno da tenere nelli hospitali in servire li poveri infermi” (Scritti…, pp. 67-71). Qui, attraverso una precisa e minuta descrizione dei modi e delle forme del rapporto coi malati, si afferma il principio del servizio agli infermi: come rifare i letti, servire i pasti, fare le pulizie.

“Perché le cure, maneggi delle cose temporali impediscon lo Spirito et charità verso il prossimo”

Il nome di “servi degli infermi” veniva preso alla lettera dal fondatore, per il quale le cure fisiche erano inscindibili dall’opera di conforto spirituale e prendevano un rilievo quasi esclusivo. Camillo fece mettere agli atti della Congregazione del 20 maggio 1599 questa specifica indicazione: “servire negl’hospedali all’infermi nella cura et bisogni corporali, cioè nettargli le lingue, dargli da mangiare, da sciacquare, far letti, et scaldarli, … et fare altre cose simili” (Scritti.., p. 195).

La forza della figura di Camillo, proclamato santo da papa Benedetto XIV nel 1746 e riconosciuto insieme con san Giovanni di Dio, patrono universale dei malati, degli infermieri e degli ospedali, è rappresentata anche dalla abbondante iconografia: un analisi dettagliata è disponibile sul sito dei Camilliani, a questo link.

Saint-Camillus-de-Lellis-rescuing-lives-and-offering-shelter-from-the-flooding-Tiber-Rome.-Line-engraving-by-J.-and-J.-Klauber.-Klauber-Joseph-Sebastian-approximately-1700-1768

Una iconografia piuttosto diffusa in ambito camilliano è la rappresentazione del santo inginocchiato mentre gli angeli in volo gli portano il Crocifisso, ma sono numerose le opere che lo ritraggono con malati: qui una approfondita descrizione dell’opera “San Camillo de Lellis salva gli ammalati dell’Ospedale di San Spirito durante l’inondazione del Tevere del 1598”

Nel dipinto, di grandi dimensioni e di formato rettangolare con sviluppo orizzontale, è raffigurata la scena dell’allagamento della grande corsia dell’ ospedale romano di Santo Spirito in Sassia in cui si assiste alle operazioni di soccorso degli ammalati, condotta da quattro uomini in abito scuro ( di cui due hanno una croce rossa sul petto), appartenenti ad un ordine religioso, aiutati da tre inservienti.

 

La morfina

Friedrich Wilhelm Adam Sertürner nell’Ottocento ebbe il merito di estrarre il primo alcaloide dalle piante medicinali

Da sempre gli uomini hanno scoperto gli usi e gli effetti collaterali di alcune sostanze: molti disturbi potevano essere risolti con semplici rimedi, spesso casalinghi, senza doversi rivolgere al medico-guaritore. Nacque così la medicina popolare, o casalinga, basata su principi terapeutici codificati dalla medicina empirica, che utilizzava ai fini terapeutici vari mezzi e le erbe medicinali erano le più diffuse.

Ma accanto a sostanze per ‘guarire’ fin dall’antichità è documentato l’utilizzo di droghe estratte dalle piante: già la medicina egizia utilizzava droghe, sebbene fossero sfruttate per scopi ludici.
Anche nella società greca e romana era accettato l’utilizzo di droghe, considerate il veicolo di connessione con il corpo e con la divinità.
Con l’avvento del Cristianesimo questa concezione tuttavia venne messa in discussione, in quanto introdotto il concetto di ordine morale legato alla conduzione verso il male, verso falsi dei.

Nonostante questo, la scienza ha proseguito nei secoli il suo cammino: nel 1800 la terapia medica, sia come farmacologia sia come mezzi terapeutici sussidiari, fece un notevole progresso rispetto ai secoli precedenti grazie all’acquisizione di nuove conoscenze di fisiologia e di patologia, ma soprattutto grazie ai grandiosi sviluppi dell’analisi chimica e della farmacologia sperimentale, che consentirono a questa disciplina di liberarsi dall’empirismo ancora permanente.
Le ricerche di farmacoterapia si indirizzano fondamentalmente su due vie: quella di un più approfondito studio dei vecchi medicinali e quella della ricerca di nuovi farmaci da usare contro le infezioni.

L’affermarsi della farmacologia sperimentale che consentì di controllare l’attività dei farmaci mediante l’esperimento, e il progresso della chimica, che permise di estrarre i principi attivi dalle piante medicinali, fecero sì che la terapia medica dell’Ottocento si arricchisse di medicinali di più pronta efficacia e di migliore sicurezza di dosaggio.

Tra le nuove sostanze medicamentose scoperte nell’Ottocento occupano una posizione rilevante gli «alcaloidi», nome che venne introdotto da W. Meissner per indicare il principio attivo di natura alcalina contenuto nelle piante medicinali.

Il merito di aver estratto il primo alcaloide dalle piante medicinali va a Friedrich Wilhelm Adam Sertürner (Paderborn, 19 giugno 1783 – Hameln, 20 febbraio 1841) farmacista tedesco che nel 1807 isolò dall’oppio una sostanza di natura alcalina ‘che chiamò «morphium» (morfina), in onore del Dio greco del sonno e dei sogni Morfeo, perché faceva dormire.

L’oppio, che si ottiene incidendo la superficie del capolino del papavero in maturazione, è sempre stato usato per scopi medici: i primi a servirsene furono le tribù del neolitico diffuse nell’Europa centrale e meridionale oltre seimila anni fa e, come detto, già i greci ne decantavano le proprietà mediche e calmanti.

Il papavero da oppio è fonte di circa 25 alcaloidi diversi: tra questi, appunto, la morfina che venne commercializzata fin dal 1827, diventando ben presto molto diffusa e somministrata per le sua capacità di alleviare dolori.

La morfina – che viene estratta solo dal papavero e non sinteticamente – è un sedativo del sistema nervoso centrale e, allevia il dolore, calma la tosse, ma solo a posteriori ci si rese conto che questo stupefacente induceva una dipendenza ancora maggiore rispetto all’oppio. Il suo uso prolungato, come tutti gli alcaloidi dell’oppio, porta ad un avvelenamento cronico, cui consegue il decadimento fisico, fino alla morte, dell’individuo.

Il suo effetto ‘calmante’ è rappresentato nelle opere del pittore spagnolo Santiago Rusiñol i Prats (Barcellona, 25 febbraio 1861 – Aranjuez, 13 giugno 1931) che nel 1894 realizzò ‘La morfina’ e ‘La medalla’ nelle quali è fissato in modo emblematico l’effetto antidolorifico di questo farmaco.

Mondino, primo anatomico

Mondino dei Liuzzi (1275-1326), il primo anatomico che ricorse all’impiego della dissezione del cadavere per l’insegnamento dell’anatomia.

Mondino de’ Liuzzi è il diminutivo abbreviato di Raimondo (Raimondino) ed il cognome appare anche nella forma Liucci. Nacque a Bologna intorno al 1270 e morì nella città natale nel 1326. Fu prima discepolo e poi anche erede dello zio Leuccio (o Liuccio) dal cui insegnamento passò a quello di Taddeo degli Alderotti. Si laureò a Bologna nel 1290. Fra il 1321 e il 1324 fu lettore dello Studio, anche se è probabile che la sua attività di insegnante sia iniziata molto prima, seppure in forma privata. La sua importanza fondamentale nella Storia della medicina è dovuta al fatto di aver sostenuto la necessità della sezione del cadavere umano nello studio dell’anatomia, sezione che praticò nella sua attività di docente, ponendo, in tal modo, una pietra miliare nella storia della medicina. Infatti la sezione di cadaveri umani, dopo la straordinaria fioritura della medicina ellenistica con Erofilo ed Erasìstrato era stata abbandonata da più di un millennio, tanto che lo stesso Galeno sezionò quasi esclusivamente maiali e scimmie.

Mundinus, the Italian anatomist, making his first dissection in the anatomy theatre at Bologna, 1318. Oil painting by Ernest Board.
Mundinus, the Italian anatomist, making his first dissection in the anatomy theatre at Bologna, 1318. Oil painting by Ernest Board.

Il merito principale di Mondino non fu, tuttavia, quello di avere iniziato l’insegnamento dell’anatomia sussidiato dall’autopsia, ma quello di avere resa pratica questa materia attraverso la dissezione. Mondino consegnò il tesoro dei suoi studi alla famosa Anothomia, che ultimò nel 1316: nel suo libro, accanto alle nozioni di anatomia e di fisiologia (trattate insieme secondo l’uso antico) descrive, per primo nella storia, anche la tecnica della dissezione da lui ideata.

Apparato urogenitale femminile come appare in una delle tavole che corredano l’edizione dell’Anatomia di Mondino curata da Joahnn Druander nel 1541

Il nuovo indirizzo dato da Mondino allo studio dell’anatomia, che gli valse il riconoscimento unanime di fondatore dell’anatomia moderna, praticamente non apportò alcun contributo al progresso di questa materia, poiché le conoscenze anatomiche rimasero ancora quelle di Galeno. Ciò fu dovuto sia al dogmatismo allora dominante in campo scientifico, sia al fatto che il docente («lettore») di anatomia, non eseguendo personalmente le dissezioni, non poteva rendersi direttamente conto della struttura del corpo umano.

La lezione di anatomia era, infatti, impartita dal «lettore» che sedeva in cattedra, leggendo il testo di Galeno e mostrando i visceri che venivano dissecati da un «incisore». A volte, oltre al «lettore» e all’«incisore», vi era anche l’«ostensore», che aveva il compito di mostrare quanto il «lettore» andava leggendo. Se durante la dissezione del cadavere emergeva una discrepanza tra il detto galenico e la realtà dell’autopsia (poiché Galeno aveva anatomizzati animali, non uomini), era assolutamente proibito ammettere l’errore galenico, ma si doveva sostenere, come fece spesso Mondino, che il testo era corrotto, o addirittura che il corpo umano era andato incontro a modificazioni dopo che Galeno aveva scritto i suoi libri.

 

Imperato e gli studi naturalistici

Ferrante Imperato (1550- 1631) fu attivo a Napoli, città nella quale pare sia sempre vissuto, esercitando la professione di farmacista: per primo aveva condotto varie prove sulla preparazione dei fogli d’amianto e formulato ipotesi sul loro possibile uso. Ma la sua fama è legata agli studi naturalistici, all’Orto botanico da lui fondato e ad una famosa raccolta di minerali che faceva parte di un vero e proprio Museo di storia naturale che egli creò affiancando ai minerali un notevolissimo numero di esemplari imbalsamati di fauna europea ed esotica (pesci, uccelli, mammiferi) raggruppati e distribuiti in diversi settori secondo un pregevole ordine logico.

Historia naturale di Ferrante Imperato napolitano nella quale ordinatamente si tratta della diversa condition di minere, pietre pretiose, ed altre curiosità. Con varie historie di piante, ed animali, sin’hora non date in luce [Ferrante Imperato]
Egli ne dà orgogliosamente una bella illustrazione nella sua opera De Historia Naturale Libri XXVIII, pubblicata a Napoli nel 1599. Si tratta di un enorme catalogo ragionato del mondo vegetale, animale e minerale allora conosciuto: la disposizione, che rispondeva al tipico canone estetico dei musei tardorinascimentali, prevedeva scaffali e armadi lungo le pareti e pezzi d’ingombro, soprattutto grossi animali imbalsamati, sul soffitto.

Nella sua opera principale Dell’Historia Naturale libri XXVIII (Napoli 1599), l’Imperato dà un catalogo ragionato
del suo famoso Museo e dell’Orto botanico. Fornisce anche precise illustrazioni dei diversi esemplari, come questa che raffigura la raccolta della Laminaria saccharina, compiuta da un subacqueo in apnea.
La pianta, definita dall’lmperato Fuco giganteo o Palmifoglio giganteo, era usata per ricavarne lo iodio, al quale già si riconoscevano virtù terapeutiche.

I materiali esposti provenivano da campagne naturalistiche condotte personalmente o commissionate da Imperato, da acquisti, doni e scambi con altri studiosi di tutta Europa, molti dei quali conosciuti a Francoforte, durante l’annuale fiera-mercato del libro che, a quanto risulta, fu frequentata dall’Imperato con una certa regolarità.
Parte integrante delle collezioni era poi un copioso e celebre erbario secco, che l’incisione dell’Historia mostra come collocato su una scaffalatura sulla sinistra dell’area espositiva.

I numerosi viaggi in Italia meridionale gli permisero di raccogliere molti esemplari minerali, vegetali e animali, ma anche di osservare in dettaglio gli affioramenti geologici. Si occupò anche intelligentemente di fossili, ai quali dedicò il trattato De Fossilioas (Sui fossili), pubblicato a Napoli nel 1610. In esso Imperato avanzò l’acuta ipotesi che il mare avesse un tempo occupato le attuali montagne e che i fossili ne fossero, appunto, la testimonianza evidente. Fondava questa interpretazione su una serie di osservazioni geologiche esposte, poi, nel Discorso sopra le montagne dei paesi, pubblicato a Venezia nel 1672—fra le quali spicca l’abbozzo di una concezione dei movimenti bradisismici cui egli riconduceva l’origine delle montagne.

Nella sua professione Imperato godette di una notevole autorità e stima, tanto che già prima del 1572 fu eletto (lo si ricava dalla dedica del Della theriaca et del mithridato libri due di B. Maranta) dai suoi colleghi partenopei membro del Consiglio di ispezione e sorveglianza dell’arte degli speziali, il Consiglio degli otto, che, oltre a controllare la correttezza dell’attività dei membri della corporazione, aveva anche il compito di sovrintendere alla preparazione dei composti farmaceutici più delicati. D’altronde, era ben nota la sua tempra non solo di “prattico”, ma anche di studioso e ricercatore.