Ars Curandi

di Elena Franco

Gli antichi complessi ospedalieri di Beaune in Francia, Lessines in Belgio e Siena in Italia sono accomunati da una storia che ha le proprie radici nel Medioevo e che testimonia come cura e accoglienza siano, da sempre, uno dei pilastri su cui si fonda la civiltà europea. Luoghi di scienza e di pensiero, città nelle città, sono stati centri di innovazione, ma anche di solidarietà, di cui hanno perfezionato i meccanismi.

ospedale di Notre-Dame à la Rose di Lessines in Belgio

L’ospedale di Notre-Dame à la Rose di Lessines in Belgio è stato fondato nel 1242 da Alix de Rosoit, vedova di Arnould IV d’Audenaerde, signore di Lessines e gran balivo di Fiandra, mentre l’Hôtel-Dieu di Beaune è stato fondato nel 1443 da Nicolas Rolin, cancelliere del Duca di Borgogna, e da sua moglie Guigone de Salins. Dell’ospedale senese di Santa Maria della Scala precocissima è la fama: almeno due relazioni, redatte tra fine Trecento e metà Quattrocento e richieste rispettivamente da Gian Galeazzo Visconti nel 1399 e da Francesco Sforza nel 1452, documentano come l’ospedale, ormai compiuto e strutturato nei suoi elementi fondamentali, costituisse un modello da imitare sia dal punto di vista della distribuzione degli spazi che da quello della gestione amministrativa.

Questi luoghi raccontano, dunque, la storia delle donne e degli uomini che, nel corso dei secoli, si sono impegnati per stare accanto ai più fragili, a coloro che soffrono, dando loro un sostegno materiale e spirituale e preoccupandosi della salute dei singoli individui e della collettività.
Sono luoghi in cui l’arte ha sempre avuto un ruolo centrale nel processo di cura, mettendo al centro la persona nella sua interezza di corpo e spirito, e luoghi in cui si è affidata all’arte la narrazione iconografica della cura e della beneficienza.

Esemplare in tal senso è il Polittico del Giudizio finale che Nicolas de Rolin commissionò all’artista di Bruxelles Roger de la Pasture o Rogier Van der Weyden, che mostra sul retro anche gli stessi benefattori fondatori dell’ospedale, ma interessante è anche la ricchissima collezione artistica e di arredi dell’ospedale belga di Notre-Dame à la Rose, caratterizzata dagli stili gotico, Renaissance e barocco. Iconica è, poi, la decorazione del Pellegrinaio maschile del Santa Maria della Scala di Siena – i cui affreschi furono affidati a Domenico di Bartolo, Lorenzo di Pietro e Priamo della Quercia – vero emblema di quel legame tra Cultura e Salute così centrale all’epoca e che necessita, oggi, di una rinnovata attenzione.

Santa Maria della Scala

Questi siti ospedalieri, inoltre, erano centri da cui la cura si estendeva al paesaggio, ai possedimenti agricoli legati alle amministrazioni ospedaliere tramite lasciti dai rappresentanti della società civile di tutte le epoche. Erano i luoghi in cui si decideva la politica agricola dei territori di riferimento, attraverso cui si garantiva un’altra forma di inclusione e assistenza territoriale: grazie al sistema delle grange senesi, attraverso i vigneti ancor oggi caratterizzanti gli Hospices de Beaune. In forma autarchica, come nel caso belga di Lessines, dove sullo stesso sito troviamo ospedale e fattoria.

Quando alla fine del XX secolo, l’evoluzione della scienza medica ha reso impossibile mantenere la funzione ospedaliera in questi edifici, è stata scelta per essi una funzione comunitaria e culturale.
È così che i tre siti sono diventati musei e oggi – sotto forma di archivi della cura, vivi e accessibili a tutti – rendono disponibile un patrimonio straordinario di scienza e umanesimo.

Ho scelto di fotografarli, nel percorso iniziato nel 2012 con il progetto Hospitalia, che si rinnova oggi nel volume dal titolo Ars Curandi, edito da ARTEMA e sostenuto dai tre musei, perché credo sia importante guardarli senza nostalgia e retorica, ma per rispondere al forte bisogno – contemporaneo – di approfondimento di quegli aspetti più legati alle discipline umanistiche in medicina, così come si sta definendo nel campo delle medical humanities.

Spero che rileggere questi luoghi attraverso l’immagine possa contribuire al dibattito sulla cura del futuro, fermamente convinta che, se la guarigione non può essere data per scontata, esista un diritto alla cura – fisica e spirituale – e un’arte della cura che debbano guidarci nelle scelte di evoluzione della nostra società di fronte alle questioni etiche che la medicina ci porrà. E che, allo stesso modo, esista la necessità di allargare il campo della cura al Pianeta, così come da sempre hanno fatto le donne e gli uomini impegnati nella gestione ospedaliera con il sistema dei beni rurali ad essi collegati.

ars curandi

Nelle trecento pagine del volume scorre per immagini il viaggio che ho compiuto in questi tre luoghi e nella loro storia, accompagnata da Bruno François a Beaune, Raphaël Debruyn a Lessines e Debora Barbagli a Siena. A loro si devono i testi che accompagnano le fotografie di ciascun sito e il racconto delle vicende che ne hanno segnato la storia. Quasi un’introduzione che vuol suggerire al lettore un futuro approfondimento “sul campo”, l’inizio di un cammino di conoscenza o una rinnovata riflessione che sappia trovare ispirazione nelle vicende delle comunità che per secoli hanno gestito questi luoghi, per meglio focalizzare sull’improcrastinabile necessità di trasformare la nostra collettività in una società che cura.

Elena Franco
ARS CURANDI

Formato: 20 x 26 cm Pagine: 300
Lingue: francese e italiano Prezzo: 55,00 €

ISBN: 978-88-8052-103-7
ARTEMA - Corso Monte Cucco, 73 - 10141 Torino – Tel. 011 385.36.56 – Fax 011 382.05.49

Semmelweis: eroico e sventurato pioniere dell’asepsi

Semmelweis fu un eroico e sventurato pioniere dell’asepsi e dell’ antisepsi, conquiste fondamentali nella storia della medicina

L’intervento chirurgico, grazie alle scoperte fatte in campo anestesiologico, si era ormai liberato dal dolore, ma per diventare sicuro occorreva liberarlo anche dal rischio delle infezioni.
La mortalità operatoria causata, in massima parte, dalle infezioni era ancora molto elevata e frenava l’iniziativa dei chirurghi. All’infuori dei casi d’urgenza in cui l’operazione era inevitabile, i chirurghi esitavano sempre ad intervenire. Sapevano che anche la più piccola incisione in una zona infetta poteva provocare una complicazione mortale, per cui si limitavano a fare quello che potevano, anche se I’anestesia aveva concesso loro di operare con maggior accuratezza e di tentare qualche volta le operazioni addominali.
Nelle grandi amputazioni, che allora costituivano l’intervento più impegnavo, la mortalità era molto elevata. L’amputazione della coscia, durante la guerra di Crimea del 1854, comportò nell’esercito francese una mortalità del 91% , che, nel 1859, durante la guerra di Napoleone III in Italia, si abbassò all’85%. La causa principale di questa elevata mortalità era l’infezione, contratta in massima parte in ospedale.

Le ‘malattie d’ospedale’, infatti, rappresentate dall’eresipela, dalla cancrena, dal tetano e dal tetano e dalla setticemia, complicavano e spesso funestavano il decorso post-operatorio nei reparti chirurgici. Invece si era osservato che, assai spesso, i soggetti operati al loro domicilio sfuggivano alle complicazioni infettive insorgenti negli operati in ospedale. Questo fatto fu verosimilmente uno dei motivi che contribuì a mantenere vivo un certo senso di diffidenza verso le istituzioni ospedaliere da parte dei malati. I motivi che avevano trasformato gli ospedali in fonti di infezioni erano molteplici e andavano dalle pessime condizioni igieniche in cui versavano locali di degenza e di cura, alla pratica delle medicazioni che venivano effettuate con strumenti e materiale (strisce di tessuti sfilacciato e liso) scarsamente puliti; allo stesso abbigliamento del chirurgo, costituito da una giacca da lavoro, per lo più sporca da vecchia data di sangue e di pus. A ciò si aggiunga la mancanza di un disinfettante veramente efficace contro le infezioni.
Tale era la situazione quando nel 1847 l’ungherese Ignazio Filippo Semmelweis (1818-1865), assistente presso la Clinica Ostetrica di Vienna, riferì di aver notato che le morti per febbre puerperale erano più frequenti nei reparti di ostetricia in cui gli studenti passavano dalle esercitazioni di medicina operatoria sul cadavere alle esplorazioni ostetriche sulle partorienti con le man non sempre adeguatamente pulite. Pensando che questa fosse la causa principale della febbre puerperale, Semmelweis ordinò agli studenti il lavaggio delle mani in una soluzione di cloruro di calce prima dell’ingresso in Clinica. L’effetto di questa misura fu immediato e la mortalità scese dal 18 al 2,45%.

Un’altra battaglia era vinta e alla chirurgia era stata offerta un’altra valida risorsa.

Quando Semmelweis comunicò questi suoi risultati non parlò di batteri, bensì di una <materia animale decomposta> trasmessa attraverso le manipolazioni degli studenti alle ferite od escoriazioni presenti nei
genitali delle puerpere. Egli, però, aveva individuato il problema e nella sua monografia sulla febbre puerperale pubblicata nel 1861 precisava che questa febbre era la stessa malattia che colpiva i chirurghi e gli anatomici che si ferivano accidentalmente o che si sviluppava in seguito alle operazioni chirurgiche.

La concezione di Semmelweis non ebbe una fortuna immediata.

Essa, malgrado l’appoggio di numerosi scienziati fra cui Rokitanski, Skoda e Hebre, venne avversata per motivi vari, compresi gli intrighi personali, da una massa di avversari comprendente anche il celebre Virchow. Di tutto ciò Semmelweis (che nel frattempo era diventato clinico ostetrico di Budapest) soffrì al punto che nel 1865 fu ricoverato in un ospedale psichiatrico per una grave forma di psicosi, e quivi nello stesso anno venne a morte a seguito di una setticemia contratta alcuni mesi prima, per una ferita prodottasi durante un’autopsia.

La vita 
SEMMELWEISS nacque a Buda nel 1818 e morì a Vienna nel 1865. Fu discepolo di K. Rokitansky e, nominato assistente nel 1846 al reparto di ostetricia presso il Policlinico di Vienna, dove potè studiare a fondo la febbre puerperale che mieteva vittime su vittime, riuscì a stabilire che essa era un'infezione generale del sangue, penetrata attraverso lesioni e causata dalla impurità presente sulle mani e sugli strumenti di chi assisteva le partorienti. Sostenne, perciò, che il flagello poteva essere vinto solo ricorrendo alla asepsi degli assistenti al parto, degli strumenti e delle medicazioni. La sua teoria venne combattuta dai massimi ostetrici del tempo e persino dal grande Virchow, finché Semmelweis abbandonò, amareggiato, Vienna nel 1850. Cinque anni dopo ebbe la cattedra di ostetricia all'Universita di Budapest, dove pubblicò il suo trattato fondamentale Die Aetiologie, der Begrif und die Prophylaxis des Kindbertfiehers (Exiologia, idea e profilassi della febbre puerperale), pubblicato contemporaneamente anche a Vienna, contro il quale si scagliarono ancora una volta le violente critiche del mondo scientifico. 

Oggi noi riconosciamo in Semmelweis un eroico e sventurato pioniere dell'asepsi e dell' antisepsi, conquiste fondamentali nella storia della medicina.

Chirurgia e arte: una storia di secoli

“Medicina come spettacolo: aspettative del pubblico dei medici vista attraverso l’arte e la televisione” il suggestivo titolo di un articolo disponibile a questo link  a cura di Rachel Martel, ‘student at NYU Grossman School of Medicine’ come definito nella sua bio.

Il punto di partenza dell’autrice è quello della sala operatoria come palcoscenico: descrive alcuni esempi, a partire da Rembrandt fino a Eakins (che noi abbiamo descritto a questo link) da un punto di vista interessante, ossia quello della visione della risposta del pubblico e delle aspettative dei chirurghi in quel momento. “La pratica di avere osservatori durante un’operazione fornisce una lente attraverso la quale esaminare la prospettiva storica del laico sulla pratica medica. Non solo medici, studenti di medicina e membri della famiglia erano presenti durante la procedura, ma gli artisti potevano essere incaricati di immortalare l’intervento chirurgico in un dipinto”

E strettissimo è il rapporto tra gli artisti e i medici, un rapporto nel quale i primi sono chiamati a dare testimonianza e a documentare l’attività della pratica medica. Rappresentazioni che offrono un indispensabile e affascinante spaccato della società, degli stili di vita e della storia stessa della medicina. Una storia che attraverso l’arte consente di comprendere le tappe e i traguardi raggiunti.

Proprio con la figura del chirurgo è possibile effettuare un viaggio nella storia di questa disciplina considerata inferiore a quella della medicina (fin dai tempi più antichi, come si può leggere qui). Un disciplina indegna, che costringeva a sporcarsi le mani, toccare il sangue e i cadaveri: ecco che la figura del ‘barbiere-chirurgo’ essendo essi già avvezzi all’utilizzo di lame, proprio come i Norcini, ossia i chirurghi di Norcia, che esercitarono per molte generazioni l’operazione della pietra e quella della cataratta.

Va detto che prima dell’introduzione di alcune misure igieniche basilari e dell’anestesia – entrambe introdotte nell’Ottocento – l’abilità del chirurgo era dettata dalla velocità di esecuzione su interventi come l’estrazione dei calcoli, la cauterizzazione di ferite, l’asportazione di piccoli tumori e l’incisione di ascessi, fino alle amputazioni.

Un esempio di attività, con la rappresentazione dello studio del chirurgo, si trova nel dipinto del fiammingo Davis Teniers – Il chirurgo – del 1670, nel quale l’espressione dell’assistito fa emergere chiaramente il dolore dell’intervento. Ma oltre al dolore del paziente, emerge con chiarezza l’ambiente: dalla totale mancanza di ogni pratica igienica alla presenza di numerosi assistenti, che operano in abiti quotidiani e in una grande confusione.

https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Physicians_by_David_Teniers_the_Younger?uselang=it#/media/File:The_Surgeon_by_David_Teniers_the_Younger
Davis Teniers – Il chirurgo – 1670

Grazie alla collezione della Welcome library possiamo invece scoprire una delle altre pratiche eseguite, ossia quella della cauterizzazione, che consisteva nel nell’arroventare un ferro e metterlo a contatto con la ferita, producendo un effetto emostatico -ma anche dolorosissimo- attraverso la bruciatura.

la cauterizzazione delle ferite – Gersdorff, Hans von, -1529.

Un’altra delle pratiche, come detto, era quella dell’eliminazione dei tumori: in questa immagine è possibile vedere l’asportazione di un tumore alla mammella di un uomo, eseguita all’interno di quello che sembra essere un salotto: siamo all’inizio dell’Ottocento, ma l’immagine appare ancora molto cruenta.


Solo grazie all’introduzione della pratica del lavaggio delle mani, con Semmelweis che intuì la trasmissione batterica attraverso le mani, e grazie a Joseph Lister con i suoi studi di batteriologia e con l’introduzione dell’acido fenico nell’ambiente operatorio, cambia anche la rappresentazione della scena operatoria.

Come poteva essere un campo operatorio è descritto nell’opera Antiseptic surgery : its principles, practice, history and results / by W. Watson Cheyne, anche grazie alla figura 23 nella quale si vede in modo chiaro lo strumento per la nebulizzazione, che consentiva un ampio spazio di disinfezione.

È bianco, segno di pulizia e igiene, il campo operatorio del teatro anatomico presente nell’opera dell’artista austriaco Adalbert Seligmann, del 1888-90 (Dr.Theodor Billroth in the Lecture Room at Vienna General Hospital) con il paziente addormentato.

Due gli elementi da sottolineare: la presenza del teatro anatomico, che ospitava studenti ma non solo, in quanto le dissezioni pubbliche sono state nei secoli veri e propri eventi mondani, come emerge anche dall’immagine di copertina di Skarbina Franz, del 1907.

Il paziente addormentato: l’anestesia, infatti, è stato l’altro elemento che ha profondamente cambiato la chirurgia.

Con il contrasto al dolore, il chirurgo poté lavorare con il paziente sedato, e senza la necessaria rapidità che era richiesta fino a quel momento, con molta maggiore conoscenza di quello che poteva trovare, e con armi adeguate per combattere le possibili complicanze.