Elizabeth Fry e la nascita del Nursing

La rivoluzione industriale inglese all’inizio del XIX secolo coinvolse grandi masse di lavoratori nel fenomeno dello sfruttamento dell’apprendistato e nelle precarie condizioni igieniche in cui versavano le abitazioni industriali o di periferia delle città.
Nel 1832 si ebbe una vasta epidemia di colera con la più alta mortalità nelle città rispetto alle campagne. In quel tempo lo stato degli ospedali era di profondo degrado: in questo contesto è da segnalare la rilevante opera di filantropia avviata da John Howard uno dei principali riformatori inglesi.

Le sue descrizioni sulle condizioni delle prigioni, degli ospedali e degli ospizi hanno avuto il pregio di sensibilizzare l’opinione pubblica su un fenomeno sommerso, iniziando un lungo percorso di cambiamento.

Elisabeth Fry (Norwick 1780-1845) proseguì la sua opera occupandosi della riforma delle prigioni. S’interessò soprattutto del miglioramento delle condizioni di vita delle detenute; visitò le prigioni di numerosi paesi europei e promosse la riforma del sistema carcerario inglese, dove spesso la situazione dell’infermeria era pessima: dolore e miserie indescrivibili, con malati gravi che giacevano sul pavimento.

Dopo aver visitato un istituto tedesco nel quale alcune sorelle di carità servivano i bisogni dei pazienti la Fry, partendo dall’esperienza tedesca, creò in patria un’associazione di donne dedite all’assistenza  denominandola ‘Nursing Sister’.

Elisabeth Fry introdusse il termine Nursing, per definire l’assistenza infermieristica tipica dei paesi anglosassoni: in quegli anni stava per nascere, proprio in Italia a Firenze, da una famiglia ricca e molto conosciuta, Florence Nightingale (Firenze 12 Maggio 1820).

Storia -breve- dell’Ospedale di Alessandria

L’Ospedale Santi Antonio e Biagio nella sua doppia dedica, risalente al 1566-1567, sembra già contenere in sé il suo destino e la sua storia che ancora oggi si sta sviluppando in piena coerenza con l’originario legame tra il luogo di cura e i bisogni di salute della comunità già afflitta da quelle patologie che verranno poi indicate come “ambientali”.

Questa significativa intitolazione, infatti, rispondeva alla precisa volontà di porre l’ospedale e quindi la città intera dei sofferenti sotto la protezione dei due principali santi medievali della pietà.

Nello specifico si tramanda che i fedeli accorressero numerosi per ottenere guarigioni da Sant’Antonio, l’eremita che veniva considerato il difensore dei poveri ma anche il protettore da tutti i tipi di contagio come l’erpes zoster, ovvero quel fuoco di Sant’Antonio che si ritrova simbolicamente nella sua iconografia. A San Biagio, invece, venne attribuita la capacità di difendere dal mal di gola dopo aver salvato un bambino che stava per morire soffocato a causa di una lisca di pesce. Entrambi i santi quindi incarnano la protezione dai mali del corpo e dello spirito, rappresentando i maestri di carità che, grazie alla loro salda fede e alta moralità, riescono a sopportare il dolore e le privazioni. Concetti davvero importanti e sentiti dagli uomini del Medioevo ai quali le malattie contagiose, le carestie e le miserie apparivano come prove imposte da Dio o addirittura punizioni.

Facendo un passo indietro, l’ospedale di San Biagio e quello di Sant’Antonio costituivano due degli originari undici ospedali della città di Alessandria.

Il primo, già documentato in un atto del 1353, era situato nel quartiere Rovereto e ospitava soltanto ricoverati maschi. L’ospedale di Sant’Antonio, posto nell’attuale via Treviso, viene ricordato in atti di fine Quattrocento: era forse il più importante e in esso venne incorporato proprio l’ospedale di San Biagio attraverso una ristrutturazione che durò circa un quinquennio dal 1566, primo anno di pontificato del papa alessandrino Pio V Ghislieri, al 1570.
Lo Spedal Grande Santi Antonio e Biagio  occupava un intero isolato di circa 6.000 mq ed era dotato di una piccola chiesa presso la quale aveva sede una confraternita laicale istituita nel 1585 “per compiere opere di pietà e misericordia verso i poveri ricoverati”.
Nel 1584 fu poi creata una Congregazione generale che procedeva ogni anno ad eleggere la Congregazione dell’Ospedale, composta da un Priore (di solito un medico del Collegio cittadino) e da quattro deputati o regolatori i cui compiti erano molteplici e interessavano sia il campo amministrativo sia quello sanitario, assistenziale e anche religioso.
Il binomio assistenza-sanità, in cui il primo termine prevale, resta la chiave di volta della storia di questo Spedal Grande a cui è necessario sommare la beneficenza pubblica e privata come mezzo di espiazione di peccati individuali e collettivi attraverso l’elargizione testamentaria di beni e rendite. L’ospedale accolse così negli anni numerose Opere Pie, assumendo gradatamente la fisionomia di argine contro la miseria e di erogatore di aiuti alle persone bisognose, fisionomia che mantenne fino al XX secolo.
Verso la fine del 1700, poi, gli amministratori dello Spedal Grande decisero di costruire un nuovo ospedale.
Venne così dato inizio all’esecuzione del progetto dell’architetto Giuseppe Caselli di Castellazzo Bormida e il 10 giugno 1772 fu posta la prima pietra della nuova struttura, aperta ufficialmente il 2 settembre 1790. Le corsie, a forma di T, occupavano la parte centrale del complesso: quella disposta verticalmente era dedicata alle donne, mentre quella disposta trasversalmente era dedicata agli uomini. Nella parte della struttura rivolta a nord si trovavano la camera mortuaria, i sepolcri, l’alloggio del seppellitore e il teatro anatomico per le autopsie; a nord-est si trovavano invece i locali “di servizio” come il magazzino e la scuderia; più a est la cucina e l’atrio; nel lato a sud la farmacia, la camera del portinaio, la sala delle riunioni, il museo e l’accesso ai piani superiori.
Fra il 1887 e il 1890 venne poi completata la monumentale facciata al centro della quale originariamente si apriva l’ampio atrio su colonne, in rapporto con lo scalone in marmo di accesso al piano superiore, in cui si trovava il Salone di Rappresentanza riccamente decorato e contenente i busti dei benefattori.
Molto frenetica fu l’attività dell’Ospedale a partire dalla fine del 1800 quando cominciarono ad avviarsi numerose discipline tra cui la Pediatria dell’Ospedale Infantile nel 1890, l’ambulatorio di Otorinolaringoiatria nel 1895, il Gabinetto di Clinica Microscopica nel 1896 e la Biblioteca Biomedica nel 1902.
Con gli anni Trenta del 1900, poi, si specializzò sempre di più in discipline anche complesse e all’avanguardia per l’epoca con l’apertura ad
esempio del Gabinetto radiologico (1935) e del Centro provinciale diagnosi e cura dei tumori (1938).
Nel 1935 venne inaugurato anche il Sanatorio antitubercolare “Borsalino”, una struttura che a partire dal 1986 venne destinata alle attività di pneumologia e dopo l’alluvione del 1994 subì un restauro completo divenendo attivo come Centro Riabilitativo, quale è ancora oggi.
Nel dopoguerra si assistette poi a una notevole evoluzione dell’Ospedale e della sua offerta medica grazie allo sviluppo, dal 1947 al 1961, dell’Ambulatorio neurologico, dei reparti di Ortopedia e Traumatologia, Cardiologia, Chirurgia, Urologia, Anestesiologia e Neurologia.

Una vecchia epidemia: la peste del 1630 raccontata nelle carte d’archivio di Alessandria

Giallo, arancione e rosso con la pandemia sono diventati i simboli del grado di libertà degli individui. Un grado di intensità di azione misurato dalla scienza sulla base delle diffusione del contagio. Misure contenitive che erano giù utilizzate nei secoli passati, come si evince ad esempio da una recente analisi ed esposizione documentale effettuata dall’Archivio di Stato di Alessandria.

Nel 1630 Alessandria, città appartenente allo Stato di Milano e quindi parte dei domini spagnoli, contava circa 10.000-12.000 abitanti entro le mura, intorno a 3.000 nei sobborghi e un numero variabile di militari (da 1.000 a 6.000) che, coinvolti nella guerra di successione di Mantova e del Monferrato, alloggiavano ad Alessandria, importante presidio spagnolo alle spalle del fronte.
La peste fu portata in Italia dai lanzichenecchi, mercenari tedeschi arruolati dal Sacro Romano Impero alleato di Ferrante II Gonzaga, della Spagna — che controllava il Ducato di Milano – e del Ducato di Savoia contro Carlo I di Gonzaga-Nevers, la Francia e la Repubblica di Venezia nella guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1628-1631)
Tutta la Lombardia fu pesantemente colpita e in particolare Milano, dove i morti furono oltre 140.000.

Secondo gli Annali del Ghilini – storico alessandrino – i primi casi di “peste manzoniana” ad Alessandria furono registrati il 23 giugno 1630, ma la città era già stata duramente provata da altri quattro casi di pestilenza, avvenuti a partire dal 1523. Data che torva conferma nei documenti d’archivio: in una lettera dell’8 luglio successivo, l’oratore Amolfi, ritornato precipitosamente da una Milano in preda al contagio, descrive anche per Alessandria una situazione ormai drammatica.

Sempre il Ghilini racconta che Alessandria in meno di quattro mesi perse 4.000 persone tra civili e forestieri, già sfiniti da precedenti epidemie. Solo nell’inverno del 1630, grazie all’abbassamento delle temperature, la pandemia iniziò a calare, ma una seconda ondata fu devastante e si dovette attendere la metà dell’anno successivo perché gradatamente si estinguesse, fino ad arrivare al termine ufficiale nel febbraio del 1633.

Secondo le indicazioni contenute nel volume Oratori vol. 54, c. 222 il 12 settembre 1629 giunge notizia della scoperta della peste a Merate, in Brianza. La principale misura adottata per impedirne la diffusione era quella di arruolare alcuni reparti per mettere al bando il borgo colpito dal contagio. I reparti dovevano essere pagati con i proventi di imposte all’uopo riscosse tra la popolazione; non si doveva badare a spese, in quanto la salute era da «anteporre al tutto».

Secondo i volumi dell’Archivio (ASCAL, III, 23, Ordinanze, c. 69) l’unico sistema per difendere la città dal contagio era presidiarne le porte incaricando cittadini “in arme” di farvi accedere soltanto individui muniti di apposita “bulletta” attestante la provenienza da città libere dalla peste. Se tali cittadini si rifiutavano di prestare servizio erano puniti con il carcere. Infatti, in un documento del 14 agosto 1630, essendo stato segnalato da Bernardo Guasco, capo del quartiere di Borgoglio, che alcuni non si erano presentati a svolgere il servizio di presidio delle porte, la Congregazione ordina che «li signori capi di Milizia possano far dettenere in prigione chiunque ricuserà obedire essendo comandato ad andare di guardia con le armi alle porte per servizio della Sanità ne possa essere rilasciato senza Spezial consesso di detto officiale».

È l’ 8 agosto 1630 quando il Consiglio di Alessandria delibera di isolare la città e di presidiarne le porte, ammettendo l’ingresso solo a chi è munito di “bolletta”: «sentita la sudeta proposta di essere di parere che per preservarsi al iminente pericolo di contaggio che tuttavia pare vada acquistando forza nei luoghi circonvicini si debbano usare diligenze straordinarie et in particolare che si custodiscano le porte con esattissima diligenza con assistenza di due gentilhuomini o persone honorate per ciascuna porta et d’un religioso poiché già molti conventi de padri di questa Città si sono essibiti far la sua parte, et più perché vi bisognano persone che aprino li rastelli e li serrino, et che piglino le bolette che si comandi sei persone ordinarie per ogni quartiere al giorno che con le loro armi assistino quota di loro per ciascuna porta per oviare a scandali che possino nascere per parte di quelli che vorano intrare. . .». (ASCAL III, 88, Consigli, c. 26-27)

Una zona rossa che rimarrà tale fino al termine ufficiale dell’epidemia, il 5 febbraio 1633 quando una ordinanza del tribunale di Milano dispone le celebrazioni per la fine della pestilenza: ostensione delle reliquie della Croce in Cattedrale e processione per la città il 5 febbraio.

L’inventore del vaccino: Edward Jenner

La campagna vaccinale contro il Covid19 ha preso un rapido avvio dopo il vaccineday del 27 dicembre, una speranza dopo un periodo così difficile.

Esattamente come accadde tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento con l’incremento del vaiolo, che ebbe un rapido incremento in Europa, fermato dalla geniale intuizione di Edward Jenner.

Medico inglese, Jenner impiega 20 anni per mettere a punto il vaccino contro il vaiolo e nel 1796 decide di provare la sua teoria.

la vaccinazione di Jenner rappresenta il primo caso documentato di prevenzione attiva di una malattia, anche se altri tentativi di immunizzazione erano già stati fatti. Nel tardo ‘600 lady Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, aveva promosso in Inghilterra la pratica della variolizzazione, secondo un’usanza già diffusa in oriente. La stessa pratica era stata introdotta anche in Italia dai medici greci e sostenuta dal papa Benedetto XIV. La variolizzazione consisteva nell’iniettare un po’ di pus prelevato da un malato in via di guarigione, in un soggetto sano provocando il vaiolo. Spesso però questa pratica era letale.

Jenner, nato il 17 maggio 1749 a Berkeley nel Gloucestershire, studiò chirurgia presso il cerusico di Sudbury e nel 1770 si recò a Londra ove divenne allievo e amico di John Hunter. Tornato alla pratica di campagna a Berkeley e riscosse un notevole successo. Era capace, abile e popolare. Oltre a praticare la medicina, si unì a gruppi medici per la promozione delle conoscenze mediche e scrisse occasionalmente documenti medici.

In campagna aveva osservato che i contadini che avevano sofferto il vaiolo animale non si ammalavano mai di vaiolo umano, e dopo molte osservazioni ed esperimenti giunse alla convinzione che il vaccino è una difesa sicura contro il vaiolo. Non potendo provare la cura su sé stesso perché già immune dal vaiolo, Jenner sottopose all’esperimento il figlio del suo giardiniere, il piccolo James Phipps. Intingendo un ago nella pustola di una contadina malata di vaiolo vaccino, con questo punse il piccolo James. Come previsto, il bimbo si ammala di vaiolo vaccino. Dopo aver atteso qualche settimana affinché il bimbo guarisse, Jenner provò a contagiarlo con pustole di vaiolo umano e il risultato fu quello sperato: il piccolo James non si ammalò.

Jenner era un medico di campagna e non era benvoluto presso gli ambienti accademici, che rifiutarono la pubblicazione della sua scoperta, dicendo che quanto da lui affermato “andava contro le conoscenze oramai stabilite” e consigliandogli di lasciar perdere, se teneva alla carriera.
Jenner, dotato di una forte personalità fece stampare a proprie spese il testo che rendeva conto dell’eccezionale vicenda.
La vaccinazione cominciò a prendere piede e gli antivaccinisti del tempo si organizzarono, costituendo nel corso dell’Ottocento vere e proprie anti-vaccination societies e iniziando a diffondere la paura, proprio come accade oggi: fra gli oppositori della vaccinazione ci fu anche Lord Byron che la definì “una moda passeggera”.

Inizialmente la vaccinazione di Jenner trovò numerose opposizioni, soprattutto da parte dei seguaci della teoria umorale. Con il tempo, la teoria di Jenner si diffuse e il suo merito fu riconosciuto e le sue intuizioni furono poi confermate dalle successive ricerche condotte nel campo dell’immunologia. Jenner ottenne riconoscimenti anche da re Giorgio III per il suo lavoro e Napoleone rese obbligatorio il vaccino per il suo esercito.

La vaccinazione antivaiolosa salvò in Europa, nel corso dell’Ottocento, più vite umane di quante ne sacrificarono, tutte insieme, le guerre napoleoniche, le guerre dell’indipendenza italiana e la guerra franco-prussiana del 1870.

La prevenzione contro il vaiolo fu senza dubbio la più importante conquista della medicina prima della terapia realizzata dagli antibiotici a metà Novecento.