Bassi e il “contagio”

Agostino Bassi (1773-1856), nativo di Mairago presso Lodi, laureato in legge all’Università di Pavia, biologo e naturalista appassionato, fu colui che diede la prima dimostrazione che il «contagio» di una malattia infettiva è dovuto alla trasmissione di un germe vivente.

Tale scoperta costituisce una pietra miliare nella storia della microbiologia, poiché essa rappresentò la convalida della dottrina del contagio animato che si riallacciava all’intuizione di Fracastoro e che doveva in seguito culminare nelle ricerche di Pasteur e di Koch.

Lo spunto per questa ricerca pervenne al Bassi dall’osservazione che nella pianura padana gli allevamenti primaverili del baco da seta andavano incontro ad una vera strage per il ripetersi di ondate epizootiche provocate dal «mal del segno» (detto anche «mal calcino» o «calcinario»).

I bachi colpiti da tale malattia perdevano la motilità e l’appetito e si coprivano di una pellicola pulverulenta biancastra, simile alla calcina (da qui il nome della malattia) e poi morivano.

Interessato ai problemi agrario—zootecnici, il Bassi affrontò anche questo problema che risolse nel 1826. Comunicò, però, i risultati solo nel 1835 per quanto riguardava la parte tecnica e nel 1836 per quella pratica, giungendo alla conclusione che il «mal del segno è sempre causato da un essere organico Vivente, vegetabile, da una pianta del genere delle crittogame: un fungo parassita».

Riportò i risultati delle sue ricerche in un libro intitolato «Del mal del segno, calcinaccio o moscardino, malattia che affligge i bachi da seta, e sul modo di liberarne le bigattaje, anche le più infestate».

Quindi il Bassi non si limitò a scoprire l’agente di questa malattia, ma si preoccupò anche di trovare il metodo per prevenirla e combatterla. Fu questo l’aspetto della scoperta che in un primo tempo interessò maggiormente per le applicazioni pratiche che implicava, mentre il principio fondamentale, che rivoluzionò la biologia, non fu, salvo rare eccezioni (Schònlein e Henle), subito riconosciuto nella sua reale e profonda importanza.

Botanica: Andrea Mattioli e l’erbario

L’utilizzo delle erbe per ricavarne sostanze curative, fa parte della storia dell’uomo fin dalla preistoria.
La botanica come vera e propria scienza iniziò solo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, grazie alle scoperte geografiche e all’invenzione della stampa.
 È noto che nell’antichità le opere botaniche illustrate avevano figure ben disegnate e facili da riconoscere, anche se, con la perdita progressiva della trasmissione orale della conoscenza, la semplice rappresentazione pittorica delle piante non agevolava affatto il lavoro degli esperti del settore. A questo si aggiunge il problema della troppa stilizzazione e semplificazione dei disegni degli amanuensi, che spesso rendevano irriconoscibili determinate piante.

Una prima soluzione a questi problemi si ebbe con l’introduzione degli erbari secchi, ma la vera rivoluzione risiede nell’invenzione della stampa (1440), che ha permesso l’edizione del 1469 a Venezia della Naturalis Historia di Plinio e, quasi dieci anni dopo, la versione latina della celebre De Materia Medica di Discoride.

Nel 1498 a Firenze venne pubblicato il Ricettario Fiorentino, la prima farmacopea scritta in volgare, in grado non solo di superare lo scollamento, causato dal latino, tra i dottori/speziali e il pubblico, ma anche di uniformare le prescrizioni e la preparazione dei medicamenti, riducendo il numero elevato di piante medicinali agli esemplari più significativi e più reperibili nel mercato. Divisa in tre libri, l’opera contiene indicazioni, norme di disposizione per la raccolta, la preparazione e la conservazione delle droghe, la lista di medicinali semplici e un formulario delle preparazioni galeniche.

Senza dubbio, il più famoso di tutti gli erbari è quello scritto dall’italiano Pietro Andrea Mattioli (1501-1577), che divenne nel 1554 medico personale dell’imperatore Ferdinando I e che ebbe più tardi lo stesso incarico presso Massimiliano II.

La sua opera principale, di cui sarebbe apparsa in seguito (1564) anche un’edizione illustrata in latino, fu un commento in italiano agli scritti di Dioscoride (1544). Tra la pubblicazione di quest’opera e l’anno 1563 furono venduti 32000 esemplari di questo erbario, il che ne fa indiscutibilmente uno dei compendio di tutte le conoscenze del secolo XVI nel campo delle piante medicinali, locali e non.

Rappresenta una transizione tra le antiche raccolte di piante e i trattati botanico—scientifici, e include anche una valutazione farmacologica dei risultati ottenuti. Va sottolineato che il Mattioli non si limitò a tradurre in modo puntuale l’opera di Dioscoride, ma la commentò con osservazioni personali (talora addirittura contraddicendo quanto scritto dal medico greco) e soprattutto la integrò di numerose altre specie, molte delle quali reduci da viaggi intercontinentali: ad esempio, le specie americane. Sembra ad esempio che sia stato proprio il Mattioli, in qualche modo, a sdoganare il pomodoro, fino ad allora considerato solo pianta ornamentale (perché ritenuto velenoso).

 

La scoperta di Virchow e la classificazione delle malattie

La scoperta di grandissimo valore avvenuta nella medicina effettuata nel 1856 da Rudolph Virchow, che formulò in modo ampio e comprensivo il principio che «la cellula è l’elemento morfologico fondamentale di tutti i fenomeni vitali, sia nel sano come nell’ammalato e che da essa dipende ogni attività vitale» ebbe impatto anche sull’Ospedale di Alessandria.

Tale principio permise di stabilire che le malattie dipendono da un’alterazione strutturale delle cellule dell’organismo. Decadde, così, dopo oltre due millenni, la teoria della «patologia umorale», ideata da Ippocrate e confermata da Galeno, e cedette il posto alla «patologia cellulare» di Virchow.

La scoperta della patogenesi delle malattie fatta da Virchow permise di classificarle in maniera più precisa rispetto alla classificazione allora esistente, secondo la quale erano distinte in mediche o interne e in chirurgiche o esterne, e di uniformare la terminologia usata per formulare la diagnosi e le cause dei decessi nei documenti ospedalieri.

Attraverso lo studio delle alterazioni cellulari prodotte dagli agenti patogeni interni o esterni all’organismo si poté conoscere più a fondo l’essenza delle malattie, formulare una loro più precisa classificazione e anche conoscere i legami che si stabiliscono fra i farmaci e le cellule dell’organismo, e ciò consentì di praticare terapie più specifiche per ogni tipo di malattia, mentre fino allora tutte venivano curate indistintamente con i salassi, i diuretici, i purganti e i diaforetici, per eliminare gli umori eccedenti che si ritenevano responsabili dell’insorgenza di qualsiasi malattia.
Il progresso medico verificatosi in questo periodo nell’ospedale di Alessandria è improntato anche dal cospicuo aumento dei medicinali in dotazione alla sua farmacia, come risulta dagli inventari che venivano effettuati annualmente.
Nello stesso periodo di tempo anche la lotta contro le malattie infettive (allora genericamente chiamate «pestilenze», se avevano un carattere endemico o epidemico), che per secoli avevano flagellato l’umanità causando enormi perdite di vite umane, fu coronata dal più vivo successo, grazie alle scoperte effettuate in questo campo, che permisero di identificare la causa delle loro insorgenze in microorganismi vivi (che vennero chiamati bacilli o batteri), distinti da caratteristiche morfologiche diverse per ogni tipo di infezione.