Ottocento e fisiologia

Il primo grande fisiologo dell’Ottocento fu Francesco Magendie (1783-1855). Egli fu un rigido empirico, che raccolse una notevole quantità di dati sperimentali in qualsiasi settore, senza quasi sottoporli a speculazione o critica di qualsiasi sorta.

Studiò la diastole cardiaca, l’elasticità vasale e il processo della deglutizione. Si interessò di neurofisiologia e nel 1811, insieme con Carlo Bell (1774-1842), riconobbe la funzione essenzialmente motoria delle radici spinali anteriori e quella essenzialmente sensitiva delle radici spinali posteriori.

Alla scuola di Magendie crebbe Claude Bernard (1813—1878), una delle maggiori menti della medicina di ogni tempo. Le sue concezioni filosofiche e scientifiche sulla scienza in fisiologia e in medicina sono, però, assai diverse da quelle del suo maestro, poiché fondamentalmente basate sul «positivismo» di cui egli fu uno dei principali teorizzatori. Bernard legò il suo nome a tante scoperte non solo in fisiologia, ma anche in farmacologia ed in patologia, nonché ad un’opera classica, l’«Introduzione allo studio della medicina sperimentale», che rappresenta un testo essenziale per chi si accosta allo studio della medicina. A lui si deve il concetto di ambiente o mezzo interno, come sono sue le importanti ricerche sulla glicogenesi epatica che attribuì ad un processo di secrezione interna, possedendo il fegato il potere di secernere e accumulare sostanze derivate dal cibo e da quell’organo condotte per via sanguigna. Nel 1860 scoprì che la vasodilatazione e la vasocostrizione non sono fenomeni locali, ma dipendono da attività nervose complesse soprattutto di origine simpatica. Per Bernard la digestione gastrica «è soltanto un atto preparatorio» e non tutta la digestione o quasi, come fino allora si credeva. Il succo pancreatico, infatti, giunto nell’intestino, esplica un’azione lipolitica, amilolitica e di scissione degli «albuminoidi». Queste scoperte portarono ad una nuova interpretazione della fisiologia umana, denominata «sintesi fisiologica», secondo la quale il corpo umano non è costituito, come fino allora si credeva, da organi aventi una funzione propria e separata, bensì da organi che si influenzano fra di loro e partecipano al compimento di una funzione.

Allarme Coronavirus, Maurizio De Filippis: “Perché germi e virus ci infettano”

Pubblichiamo il contributo di Maurizio De Filippis, storico della Medicina, che ci ha inviato una nota relativa alla situazione che sta interessando in questi giorni la Lombardia e altre regioni del Nord Italia.

Pestilenze e pandemie hanno da sempre caratterizzato la storia passata e recente dell’uomo influenzando i comportamenti di intere generazioni e il modo di vivere delle comunità esposte ai rischi del contagio. Tra XIV e XV secolo in Europa, Asia e Nord Africa si verificò la prima parziale “unificazione microbiologica” veicolata dalla “peste nera”. La peste è una zoonosi causata dal bacillo Yersinia pestis che si trasmette dai roditori selvatici agli uomini per mezzo della pulce del ratto (Xenopsylla cheopis). Nei secoli successivi, grazie alle nuove scoperte geografiche, all’ampliamento delle rotte commerciali e all’aumento della possibilità di contatti interumani quasi tutto il mondo era divenuto, “dal punto di vista dei germi, un unico grande villaggio”. Oltre alla peste bubbonica, alcuni dei peggiori flagelli che hanno colpito l’umanità (vaiolo, influenza, tubercolosi, malaria, morbillo, colera e AIDS) derivano da infezioni originatesi dagli animali, anche se gli agenti patogeni che le causano sono ormai divenuti peculiari della nostra specie. Il problema della provenienza animale delle malattie è ancora oggi una questione di importanza fondamentale e solleva numerosi interrogativi: perché alcuni microrganismi si sono evoluti in modo da infettarci? Perché alcune patologie si diffondono in modo epidemico, come ad esempio la peste nel Medioevo? Come è avvenuto lo spillover, cioè il salto del patogeno da una specie ospite all’altra, dagli animali all’uomo? La riflessione sul rapporto salute-malattia pone, di norma, gli esseri umani al centro di un sistema aperto in perenne equilibrio dinamico tra dimensione interna e ambiente esterno. Se esaminiamo da vicino tale rapporto, ponendoci dalla parte degli agenti infettivi, ci rendiamo conto che anch’essi sono un prodotto diretto della selezione naturale. In tale contesto, occorre domandarsi, quale vantaggio in termini evolutivi può trarre un agente patogeno dal causare una malattia che, in determinate situazioni, può condurre al decesso dell’ospite. Virus, batteri, miceti e protozoi in effetti, si comportano come tutte le altre specie viventi e i meccanismi evolutivi selezionano gli agenti biologici più idonei a sopravvivere e a riprodursi. Il successo evolutivo, in questo caso, si può quantificare monitorando quanti soggetti vengono contagiati dall’ospite durante il decorso della malattia e dalla virulenza di quest’ultima. Le modalità che consentono il contagio interumano e la trasmissione tra animale e uomo sono molteplici.

Ad esempio, alcuni microrganismi, come l’agente eziologico della salmonellosi, attendono che il loro primo vettore venga ingerito da un altro ospite causando in quest’ultimo una tossinfezione alimentare. Per trasferirsi da un individuo infetto ad uno sano alcune patologie zoonotiche “scroccano” un passaggio ad altri organismi vettori come ad esempio, la pulce, il pidocchio, la mosca tse-tse e le zanzare, responsabili della trasmissione della peste, del tifo, della malattia del sonno, della malaria e di altre malattie virali ed epidemiche quali la chikunguya, la febbre gialla e la dengue. Allo scopo di ottimizzare il contagio alcune specie -responsabili delle infezioni alle vie respiratorie- inducono l’ospite a starnutire o a tossire veicolando così, verso nuove potenziali vittime, i batteri e i virus della pertosse, del raffreddore, dell’influenza e delle sindromi respiratorie acute (SARS, MERS causate da un Coronavirus). Ciò che il nostro linguaggio corporeo interpreta come il sintomo di un malessere crescente, in realtà costituisce uno “scaltro disegno biologico” finalizzato alla conservazione e alla diffusione della specie microbica. Ma perché queste strategie comportano talvolta la morte dell’ospite? Anche se dal punto di vista dei microrganismi la cessazione delle funzioni vitali dell’organismo ospite rappresentano un effetto indesiderato, la strategia risulta comunque efficace se riesce a perpetuare il ciclo biologico dell’agente patogeno. Le nostre difese immunitarie rappresentano quasi sempre un’efficace barriera nei confronti dei processi patologici provocati da elementi endogeni o esogeni. Esistono però dei microrganismi più astuti, come ad esempio i ceppi virali dell’influenza, capaci di modificare i propri antigeni e indebolire le risposte anticorpali del nostro sistema immunitario. Quando un agente biologico, come ad esempio, il virus responsabile nel 1918 dell’influenza “spagnola”, incontra una popolazione recettiva il rischio di una pandemia globale diviene concreto. Le malattie epidemiche hanno, in genere, alcune caratteristiche comuni come l’improvvisa comparsa, la rapidità di propagazione e il decorso acuto. In un breve arco di tempo, gran parte degli individui di una comunità viene contagiata facendo registrare spesso un elevato tasso di mortalità.

I sopravvissuti al morbo epidemico sviluppano una forma di immunità temporanea o permanente che di solito li preserva da una ricaduta provocando un esaurimento spontaneo dell’infezione. Almeno sino a quando una generazione di soggetti suscettibili non risulti esposta all’azione di un nuovo ceppo virale o batterico. I fattori associati alla diffusione delle malattie infettive sono naturalmente numerosi: ricordiamo tra gli altri, la recettività, l’infettività dell’agente, il periodo di incubazione e la densità della popolazione. In effetti, le prime grandi ondate epidemiche o pandemiche della storia sono iniziate dopo la nascita dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame. Come afferma Jared Diamond nel libro intitolato “Armi, acciaio e malattie”, quando buoi e maiali vennero domesticati “erano già vittime di germi che non chiedevano di meglio che trasferirsi nell’uomo”. Anche i patogeni degli animali sono sottoposti alla pressione della selezione naturale e solo pochissimi sono riusciti a compiere il salto di specie. La stretta convivenza con gli animali domestici o selvatici può generare, in modo occasionale, delle malattie nell’uomo: il graffio di un gatto può trasmetterci la linforeticulosi, i polli e i pappagalli la psittacosi, i cani la leptospirosi, i buoi la brucellosi, le lepri selvatiche la turalemia. Affinché si verifichino le condizioni per il diffondersi di un’epidemia non è però sufficiente la capacità di replicarsi all’interno di un organismo vivente ma è necessario che l’agente patogeno acquisisca la capacità di trasferirsi ed infettare più individui. Il meccanismo biologico che consente ad un microrganismo patogeno di passare da una specie ad un’altra viene definito dai virologi “effetto spillover”. Gli annali di storia della medicina descrivono a più riprese il diffondersi di febbri pestilenziali e morbi pestiferi contagiosi la cui origine -talvolta- è rimasta incerta come ad esempio, il sudor anglicus, la malattia del sudore, che si diffuse in Inghilterra a cavallo tra il XV e il XVI secolo mietendo migliaia di vittime prima di svanire nel nulla insieme ai suoi misteriosi germi infettivi. Oggi il pericolo rappresentato dalle grandi epidemie/pandemie del passato sembra essersi parzialmente attenuato, grazie alla vigilanza sanitaria esercitata dall’OMS, dall’ECDC e dai centri internazionali per la prevenzione e il controllo delle malattie. La recente epidemia influenzale causata dal nuovo ceppo di Coronavirus (SARS-CoV-2), appartenente alla famiglia della MERS e della SARS, rischia però di riportare al centro dell’attenzione generale la psicosi del contagio legata al fenomeno delle zoonosi: esse “ci ricordano che in quanto esseri umani siamo parte della natura. C’è un mondo solo, di cui l’umanità fa parte, così come l’HIV, Ebola, la SARS, virus influenzali e germi con cui dobbiamo sforzarci di convivere e combattere”.

Maurizio De Filippis (Scrittore e Storico della Medicina)

BIBLIOGRAFIA

J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 2006.

D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle epidemie, Milano, Adelphi, 2014.

S. Sabbatani, Epidemie, contributi in ambito storico-medico, Pavia, Edimes, 2007.

La “misura” dell’organismo con i nuovi strumenti

Nella prima metà del 1800 si ebbe la definitiva separazione dell’anatomia macroscopica dalla fisiologia, mentre l’anatomia microscopica fu insegnata ora dagli anatomici ed ora dai fisiologi e ciò ebbe come conseguenza benefica il fatto che nella ricerca istologica non andò mai perduta di vista la parte funzionale.

Uno degli aspetti essenziali del progresso compiuto dalla fisiologia in questo secolo fu il graduale regresso di ogni elemento speculativo e la progressiva scomparsa di ogni forma di animismo o di vitalismo, a cui si sostituì un’interpretazione fisico-chimica sempre più precisa delle diverse manifestazioni vitali. Il tutto allo scopo di ridurre tutti i processi vitali a meccanismi essenzialmente fisico-chimici, controllabili con mezzi che dessero riposte, rappresentate da dati ben definiti, espressi con grafici, numeri o gradi, sulla base dei quali si potessero formulare leggi fisiologiche.
A rendere possibile l’attuazione di questo progetto molto concorse il moltiplicarsi degli strumenti scientifici, fra cui ricordiamo: l’emodinamometro a mercurio (1828) di Poiseuille, trasformato dal Ludwig in chimografo (1847); il viscosimetro dello stesso Poiseuille; lo sfigmografo di Marey (1860); l’elettrometro capillare di Lipmann; il galvanometro a specchio di Arsnoval (1881); il reotomo differenziale di Bernestein; l’ergografo; il miotonometro di Mosso (1896) e numerosi altri.

Il merito principale dei progressi compiuti dalla fisiologia in questo secolo va soprattutto agli studiosi francesi e tedeschi, che tolsero a quelli italiani il primato che nei secoli precedenti avevano saputo mantenere, principalmente ad opera di Spallanzani, Redi e Vallisneri.