Nel 1632 la contessa di Cinchon, moglie del governatore spagnolo del Perù, comincia a soffrire di febbre e viene curata con il decotto di una corteccia di una pianta detta “china-china” dagli indigeni, che da tempo la utilizzano come febbrifugo.
Le Cinchona sono alberi sempreverdi che, allo stato spontaneo raggiungono grandi dimensioni, di altezza fino a 20-30 metri con tronco eretto, non molto robusti, che raggiungono i 30 cm di diametro. La sua corteccia è rossobruna fortemente fessurata, i rametti sono spesso pubescenti. Le foglie hanno un picciolo medio, sono orbicolari o largamente ovali, la cui base varia da cordata a cuneata con il lembo che decorre lungo il picciolo. Originaria delle Ande peruviane, dell’Ecuador, della Colombia dove cresce fra i 1000 e i 2000 metri, con punte fino ai 3000 metri.
Dalla corteccia amara dell’albero della china si ricava la chinina, una sostanza alcalina biancastra, tonica da cui, a sua volta, si ricava il chinino.
La chinina possiede svariate altre proprietà medicamentose: è indicata nelle nevralgie reumatiche, per eliminare i catarri dallo stomaco. Viene usata come tonico per i convalescenti.
La scoperta delle sue proprietà terapeutiche, pur risalendo a meno di quattro secoli fa, è avvolta nella leggenda.
Una delle versioni narra che in Perù, a seguito di un terremoto, diversi alberi di china caddero in un laghetto rendendone amare le acque.
Dopo qualche tempo, gli indigeni della zona notarono che alcuni animali ammalati che si abbeveravano di quelle acque guarivano miracolosamente.
Grazie alla guarigione della Contessa, la sostanza venna chiamata “polvere della Contessa” e per merito del cardinale Juan de Lugo, divenne monopolio dei Gesuiti. Fu in seguito a questi eventi che la china arrivò in Europa: secondo alcuni introdotta personalmente dalla nobildonna (Linneo nel XVIII sec. catalogherà l’albero della china come “Chinchona” in suo onore), secondo altri per mano dai Gesuiti di Lima (la droga verrà chiamata anche “polvere dei Gesuiti”).
La spezieria dell’Ospedale S. Spirito in Sassia a Roma diventa uno dei principali produttori di sciroppi e medicamenti per la malaria, ma in molti casi – per carenza della polvere originale peruviana – essi vengono “tagliati” con false chine o cortecce inerti, alle quali un infuso di aloe fornisce il sapore amarognolo. Con il nuovo metodo di cura delle febbri a base di china, entra in crisi la dottrina di Galeno.
Nel Settecento, il costo della china era così alto, che la Spagna ricavava più denaro dalla vendita della sua corteccia di quanto ne guadagnasse dall’argento estratto nelle colonie americane.
Secondo gli studi medici del tempo la china era inoltre consigliata sia per aumentare i flussi mestruali, sia quale rimedio nei deperimenti organici e nelle consunzioni derivate da eccessi sessuali.
Per tutto il XIX e XX sec. da sola o associata al ferro, la china rappresentò uno dei ricostituenti più popolari per risolvere le astenie sessuali e i casi d’impotenza d’affaticamento.
La prima apparizione in Italia data 1612 e nel 1906 l’importante rivista medica «Lancet» scrisse dell’importanza dell’azione dei padri gesuiti.
Il medico italiano Francesco Tortì dimostrò, nel 1712, la diversa natura delle febbri malariche rispetto alle altre patologie febbrili, mentre il chinino venne estratto dalla corteccia dell’albero della china e fu isolato e così chiamato nel 1817 dai ricercatori francesi Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou.
Il chinino è un rimedio efficace contro la malaria ma è anche un farmaco altamente tossico. È stato il farmaco principalmente usato per la cura della malaria fino alla scoperta della morfoghina.