La sifilide, nuova pestilenza del Rinascimento

Anche nel periodo rinascimentale come in quelli precedenti, le “pestilenze” e continuarono ad infierire, mietendo migliaia di vittime, anzi, oltre alle malattie già conosciute ne comparvero nuove: la sifilide e la febbre petecchiale.

La maggior parte degli storici ritiene che la sifilide possa coincidere con l’assedio di Napoli da parte di Carlo VIII di Francia del 1495: la malattia sarebbe stata importata dall’America all’epoca dell’assedio e assunse subito proporzioni epidemiche e un decorso tanto grave che non sarebbe stato mai più eguagliato.

La malattia, infatti, si diffuse con enorme rapidità, provocando grande turbamento tra i medici e sconvolgimento tra i pazienti, per le gravi mutilazioni che essa causava, così come la disapprovazione sociale legata alla sua associazione con l’impurità: da subito fu abbastanza chiaro che si trattava di una malattia diffusa per via sessuale.

Sebbene non sia stato definitivamente risolto il problema dell’origine americana o europea della sifilide, si continua a riportare i libri di storia della medicina che i marinai di Cristoforo Colombo avrebbero contratto le malattia in America per trasmetterla in Europa al ritorno.

Il primo il primo che diede il nome a questa malattia fu Fracastoro, descrivendola in modo completo nel noto poema «Siphilis sive de morbo Gallico» scritto nel 1521 e stampato nel 1530.

Altro medico tra i primi ad occuparsi di questa malattia fu Nicolò Leoniceno lettore di medicina teorica prima Padova, poi a Ferrara che pubblicò un libro molto completo nel 1497, sebbene sull’argomento scrissero anche Gerolamo Cardano, Alessandro Benedetti, Berengario da Carpi, Gabriele Falloppio, Leonardo Botallo e molti altri.

La malattia contrassegnata da eruzioni cutanee pustole e ulcere diffuse, fu subito trattata con il mercurio usato in pomata e in fumigazioni. La pomata era costituita da mercurio mescolato con grasso di maiale cui in seguito vennero aggiunti anche zolfo, incenso e mirra. Le fumigazioni si eseguivano bruciando un composto del metallo (generalmente il cinabro) in un recipiente chiuso, solitamente una botte, in cui si metteva il malato tenendogli fuori il capo. Non di rado capitava che durante questo trattamento alcuni ammalati morissero per avvelenamento da mercurio non giustamente dosato. Alla terapia mercuriale venne associata presto quella con il legno santo o guaiaco. Per difendersi da questa malattia vennero istituiti appositi ospedali – gli ospedali degli «Incurabili» – in cui venivano internati e isolati i contagiati ai quali, in molte nazioni era anche interdetto l’accesso ai locali pubblici e veniva limitata la libertà, quasi come lebbrosi.

Lascia un commento