La chirurgia al tempo di Ippocrate è essenzialmente una terapia delle fratture e delle lussazioni: lo si evince dai titoli dei trattati del Corpus Hippocraticum, che si presentano in modo compatto grazie alle strette relazioni che li legano.
“Le articolazioni”, “Le fratture”, “Le ferite della testa”, “Gli strumenti di riduzione”, “L’officina del medico”, “L’emorroidi e le fistole”.
Al tempo di Ippocrate non esisteva differenza tra medicina e chirurgia: i laici praticavano entrambe, mentre i medici sacerdoti si dedicavano in modo quasi esclusivo la medicina.
Questa premessa è essenziale per comprendere gli interventi chirurgici dei tempi, basati in modo prevalente su una chirurgia di tipo traumatologico. Il campo di applicazione era legato, infatti, a ferite, fratture, lussazioni, curate in “iatron”, che i traduttori hanno reso con il termine di “laboratorio”, mentre in realtà era inteso come un vero pronto soccorso.
Dei sei trattati, sono tre i più rilevanti e che meglio rendono l’idea della chirurgia dell’antichità, in cui il genio di Ippocrate emerge nello spirito di osservazione, nel senso pratico, nell’esperienza e nella critica ai modi errati di operare: “Articolazioni”, “Fratture” e “Strumenti di riduzione”.
Va sottolineata la cura nei particolari nella descrizione degli strumenti utilizzati per la riduzione delle lussazioni e delle fratture; senza gli enormi progressi fatti attraverso una maggiore conoscenza dell’anatomia, sarebbe stato difficile riuscire ad arrivare a procedimenti più miti, usati oggi.
Gli strumenti vengono distinti in due gruppi: quelli usati per le operazioni di riduzione e quelli impiegati per proteggere e tenere fermi gli arti dopo l’intervento. Per questo tipo di interventi si faceva ricorso a bendaggi, stecche e docce: è l’argomento della parte iniziale di “Fratture”.
Ma la parte principale di questi trattati è dedicata agli interventi di riduzione, attraverso i quali il medico, coadiuvato da assistenti, sistemava ossa e articolazioni, riportandole alla loro posizione naturale.